sabato 15 marzo 2014

Street poetry

Visto in via Zamenhof, Milano

La rete e il minestrone quotidiano

“Chi ha appreso dei misteri della vita tra galline e conigli ha una visione assai leggera delle carnali nefandezze”. Be’, chi non ama il fecondo argomentare alla radio di Gianluca Nicoletti, così intriso di riferimenti alle “carnali nefandezze”, dovrà almeno riconoscere la genuinità della sua vocazione e la sincerità della ricognizione che fa su di sé e sulle sue radici nel Libro infame: una sorta di autobiografia illustrata, pubblicata da Tunué. Libro che, sia ben chiaro, di infame non ha niente.  E anche il dubbio, pure legittimo, che l’operazione autobiografica sia il segno di una presunzione e di un egocentrismo ossessivo, viene meno di fronte al forte taglio ironico che permea tutto il volume, illustrazioni di Roberto Ronchi comprese.
Perché dietro lo schema autobiografico c’è un lavoro, durato anni, di rivisitazione scanzonata del costume, e di svelamento delle ipocrisie che permeano il nostro quotidiano. Tutto, come fa sempre Nicoletti, giocato sul filo sottile che unisce la tradizione di un’Italia contadina, provinciale, bigotta e insieme sensuale, alla contemporaneità segnata dalla rivoluzione della tecnologia digitale. A chi lo accusa di essere spesso “sopra le righe”, Nicoletti risponde che “L’allusione porno gastronomica è per me l’unica via di fuga dal proibizionismo dei sensi”, aggiungendo che “L’allusione prandiale alle fantasmatiche sollecitazioni sconce suggerite dal cibo sin dalla mia fanciullezza faceva parte del costume locale”; e “non è colpa mia: così sono cresciuto”; “vengo dalla provincia più intrisa di pudibondo libertinaggio che ci sia in Italia”.
E’ pensando al fatto che la deriva tecnologica dell’archiviazione digitale di fatti, esperienze, emozioni di una vita potrebbe essere la strada per costruire una memoria che dia conforto per quello che si perde, e permetta rievocazioni nostalgiche, che Nicoletti ripercorre, a salti, alcuni segni della formazione di un figlio del dopoguerra e del boom. Si va dalle polverine per fare l’acqua frizzante alla mucca Carolina, dalla carne in scatola ai terrificanti manifesti coi mutilatini che avevano toccato i residuati di guerra, ai banchi di scuola con il calamaio per l’inchiostro alla prima comunione con i pantaloni corti. Non mancano le prime esperienze erotiche, suggerite dalle pubblicità di biancheria intima sul catalogo Postalmarket, per passare dalle immagini del “frate favarone” alle ragazze di Drive in e Colpo grosso, dai soldatini di piombo agli anni di piombo, da Lanciostory alla mamma che, più o meno consapevolmente, boicotta l’ingresso in casa delle amichette del figlio.
Ma c’è una cosa che lega la semantica del nascente consumismo degli anni ’50 – ’60 alla vertigine con la quale Nicoletti, dal ’90 in poi, si lancia nel mondo del web passando interi anni intriso di chat lines, di second life, di facebook. E’ l’idolatria del sintetico – l’idrolitina, la carne Simmenthal, il surrogato di cioccolata – che segna gli anni della ricostruzione e del boom, il progressivo allontanarsi dalla natura, l’inarrestabile avanzata di prodotti (e mentalità) industriali, di cibi e oggetti segnati dalla tecnologia a scapito di quelli, semplici e banali, di veloce decadenza e marcescenza, che forniva l’orto di casa, o il negozio di alimentari all’angolo. Ecco, in questo passaggio c’è la formazione di Gianluca Nicoletti, e c’è la trasformazione del nostro paese degli ultimi sessant’anni. “Penso che divenimmo i pionieri degli amori digitali proprio perché avevamo coltivata fin dalla fanciullezza quella fantastica confidenza con tutto ciò che riproduceva sinteticamente il banale e caduco prodotto della natura”.
Il passo successivo sono le protesi emotive dei Golem che riproducono in forma digitale il nostro agire umano, lo smarrirsi in un universo che mette in comunicazione con un numero potenzialmente infinito di persone, l’illusione che le memorie elettroniche ci rendano meno inermi di fronte alla fugacità delle cose della vita. Una dimensione in cui il monitor diventa un reliquiario di noi stessi, e noi siamo una sorta di imbalsamatori delle nostre anime, che ordiniamo nel museo digitale delle nostre allucinazioni. Se questo ci renderà meno fragili e se le tracce che avremo lasciato sopravvivranno meglio all’erosione del tempo, non ci è dato sapere. Per ora, dice Nicoletti, viviamo in un tempo mitico che si è fuso con la vita di ogni giorno. “Ho avuto il privilegio di poter seguire un passaggio nella catena evolutiva pari a quello che ha determinato il pollice opponibile”. Ma anche lui, che pure ha la sensazione di essere stato testimone e insieme protagonista di una delle rivoluzioni più significative della storia dell’uomo, conclude: “Come tanti miei contemporanei, ho diluito il mio tempo mitico nell’imbecille minestrone del quotidiano”. Niente di grave. L’importante è saperci ironizzare sopra.

domenica 2 marzo 2014

Aere perennius

Sono in ritardo, terribilmente in ritardo.
Mentre io mi attardavo a promuovere la lettura
c’era chi aveva capito che i libri non servono più.

Forse i conigli non dovrebbero avere la presunzione di interloquire con Wittgenstein. Ma  lì (tale il titolo del blog di Luca Sofri) fin dall’8 gennaio campeggia un post che decreta, testuale: ”La fine dei libri”. Sono certo in ritardo, sono d’accordo su alcune osservazioni, ma su altre vorrei sommessamente dissentire.
Dice Luca Sofri che la rete ci ha disabituato alla “lettura lunga” e che il tempo che una volta era usato per leggere libri ora è preso da altri strumenti: videogiochi, social networks, video online ecc. Forse in parte è vero, e ce ne dogliamo. Ma soprattutto che il libro “non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura”, e che è “diventato marginale come mezzo di diffusione della cultura contemporanea”, che trova invece spazio su internet in formati più brevi, “che non sono più superficiali, anzi spesso sono molto più densi e ricchi di certi saggi di 300 pagine allungati intorno a una sola idea”. Sofri aggiunge che non è vero che i libri “restino” più a lungo, e che oggi “resta” più un post su un blog. Un monumento incorruttibile nello scorrere della storia. E  conclude che ci saranno sempre degli “appassionati ‘romantici’ dei libri”, ma che saranno sempre meno, come quelli del teatro: due “nicchie laterali della cultura contemporanea”.
Ora, nessuno mette in dubbio la crisi dell’editoria, anche se a mio avviso è più figlia della crisi economica generale che di una disaffezione per il libro. Né che i nuovi media stiano occupando uno spazio crescente del nostro tempo sia libero che di lavoro, né che abbiano grandi capacità di sintesi e di penetrazione nell’opinione pubblica. Una cosa che onestamente non riesco a condividere, invece, è che la cultura  si possa costruire senza libri: quella non è cultura, è abilità, capacità di organizzarsi, di avere informazioni. Ma la cultura nasce dalla comprensione profonda di fatti, concetti, progetti. Dalla metabolizzazione di ragionamenti complessi.
E non credo che tutti i libri siano solo lungaggini stiracchiate intorno a una sola idea. Lo saranno quelli scritti dagli universitari a meri fini concorsuali. Lo saranno probabilmente la maggioranza di quelli che vengono pubblicati, come è sempre accaduto. Ma che ogni tanto un libro – saggio o romanzo che sia – riesca a sondare spazi inesplorati, dandoci risposte a grandi questioni, o aggiungendo dubbi a quelli che abbiamo già, riesca a raccontare le vicende umane con intuizioni così profonde da farci ripensare a tutto quello che abbiamo fatto nella nostra vita, o a farci scoprire un tipo di persona o di comportamento che non eravamo riusciti ad inquadrare con i nostri mezzi, questo non lo può negare nessuno. Il libro, sì, può essere un monumento aere perennius.
Se poi è vero che, purtroppo, il numero dei lettori, in Italia, non solo non cresce, ma diminuisce perfino, questa è soltanto la dimostrazione non che siamo un paese all’avanguardia, ma che siamo un paese arretrato e condannato al declino culturale, politico ed economico. Eppure, a guardarle bene, le cifre della crisi riguardano soprattutto i lettori deboli, quelli che leggono un libro l’anno, magari di ricette, di diete o di freddure. Perché i lettori forti sono rimasti più o meno gli stessi.
Luca Sofri dice che è assodato che “la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga”, e cioè incapace di leggere testi di molte pagine. Ma non so se è vero. Perché i “lettori lunghi”, in Italia, sono sempre stati pochi. Il problema è che non sono cresciuti proporzionalmente alla scolarizzazione del paese. Può, l’uso della rete, sostituirsi a questa mancata crescita? Io penso proprio di no.
Sempre che ai conigli sia concesso confrontarsi con Wittgenstein, vorrei dire che mi spaventa l’idea – ahimé diffusa - che in futuro apprenderemo molto velocemente dalla rete quello per cui prima perdevamo tempo sui libri. Io penso invece che, rinunciando alla lettura (su carta o su e-reader non conta), saremo sempre meno capaci di pensieri complessi, di ragionamenti in profondità, di assimilare le lezioni del passato, di progettare il nostro futuro con cognizione di causa, di svolgere il nostro lavoro - tutti i lavori, dal più semplice al più complesso – con competenza. Soprattutto ho paura che chi viene affascinato dalla prospettiva della trasmissione informatica della conoscenza non si renda conto che la mancanza di profondità, di “lettura lunga”, impedisce la maturazione di cittadini consapevoli, e quindi di una democrazia degna di questo nome. Perché in un paese dove non si leggono libri, non si sa nemmeno perché e per chi si va a votare. E che in Italia la scarsa percentuale di lettori abbia già dato segnali preoccupanti in questa direzione, mi pare non ci sia bisogno di ripeterlo. E la frequentazione della rete difficilmente produrrà maggiore senso dello stato, solidarietà sociale, coscienza civica. Né capacità di sviluppo, intellettuale come economico, perché vanno di pari passo.

Lasciamo ai nuovi media tutto il merito di darci informazioni infinite in tempi brevissimi; di metterci in contatto con il mondo senza barriere; e facciamo in modo che tutti vi abbiano accesso, perché sono strumenti indispensabili. Ma credo che non dovremmo perdere occasione per sostenere la lettura, fare in modo che la famiglia, la scuola, la radio e la televisione e, perché no, i nuovi media lancino una grande campagna per stimolare la lettura e familiarizzare gli italiani col libro. Anche con i grossi libroni con un’idea sola: meglio averne letto uno in più che uno in meno. Non è tempo perduto. E’ tempo guadagnato nella costruzione di menti critiche e  aperte. Perché è dimostrato che nei paesi in cui il numero di lettori di libri è più alto, il prodotto interno lordo cresce di più. Pensare che leggendo twitter gli italiani acquisiscano gli strumenti per competere a livello mondiale con i paesi più avanzati è un’illusione pericolosa. Senza pensiero, senza ragionamento, senza “lettura lunga” si resta superficiali, ignoranti, e poveri. E magari, pur illudendosi che un blog sia eterno, si finisce per usare una lingua sciatta, povera e disordinata, che trasmette idee approssimative e confuse.www.wittgenstein.it