mercoledì 29 ottobre 2014

NON SIAMO INNOCENTI.
IL DECLINO DEL PAESE
E’ RESPONSABILITA’ DI TUTTI


“La nostra organizzazione sociale ha bisogno di una generazione di 'lavoratori della mente' (…) desiderosi di sfuggire a una piatta impiegatizzazione (...) mettendo le proprie competenze a disposizione della comunità”.
  Sante parole. Nel suo ultimo libro, Senza sapere – il costo dell'ignoranza in Italia, Laterza, 2014, Giovanni Solimine si schermisce, dicendo che sarebbe presuntuoso, per lui, indicare la via per uscire dalla situazione di drammatico declino culturale del nostro paese. Ma in effetti il suo libro, assieme a una puntuale analisi della crisi in atto, ricca di dati e utili riferimenti alla letteratura esistente, è un compendio di cosa si dovrebbe e si potrebbe fare per smuovere le acque stagnanti della palude in cui si è impantanata l'Italia.
Parte, Solimine, dal comparto in cui si è più speso, per la sua produzione scientifica e il suo impegno civile, e cioè quello della lettura e del sistema bibliotecario. Disegna un quadro drammatico, che va oltre la modesta percentuale di lettori che ben conosciamo: se più di metà degli italiani non legge nemmeno un libro l'anno, appena l'8% dichiara di avere significativi interessi culturali. E mentre nell'ultimo ventennio la spesa delle famiglie per la telefonia è aumentata del 360%, quella per i consumi culturali è calata del 38%. Non vado oltre. Ma quello che conta è che, come ricorda Solimine, l'accesso alla conoscenza è fonte di benessere, mentre noi, dopo gli anni Settanta, siamo diventati più ricchi, ma meno colti e quindi anche meno felici, meno capaci di vivere responsabilmente la modernità e meno consapevoli.
E siamo diventati ignoranti. Abbiamo svilito scuola e università, non abbiamo investito nelle biblioteche e nella formazione degli adulti, non abbiamo riconosciuto il valore della conoscenza. Di chi la responsabilità di questa deriva? Inutile prendersela con chi ci ha governato. Non siamo innocenti, è colpa di tutti, anche se in particolare della classe dirigente: dei politici, che hanno perseguito l'utile personale invece del bene generale; del ceto imprenditoriale, portato solo agli interessi di bottega; degli intellettuali, rinchiusi su se stessi e incapaci di proporsi come guida per l’uscita dalla crisi; ma anche di una società civile cinica e distratta, che quella classe dirigente ha tollerato e subito.
Non dobbiamo illuderci: Solimine ricorda che abbiamo già assistito al declino di popoli con alle spalle tradizioni millenarie. Noi stiamo, appunto, sprecandole. Potremmo salvarci se riconoscessimo che la conoscenza è un bene comune ineludibile; se riducessimo le disuguaglianze, che sono un freno alla crescita; se capissimo che la comunicazione culturale e scientifica è un’infrastruttura essenziale; se potenziassimo le biblioteche pubbliche e le mettessimo all’altezza della sfida della modernità; se lo stato e i privati investissero nella ricerca; in definitiva, se decidessimo di combattere l’ignoranza.
Importante la precisazione sui cosiddetti “beni comuni”, termine che rischia di diventare “una delle più stucchevoli parole-chiave del dibattito politico ed economico”, utilizzata spesso a sproposito. Giustamente, si sottolinea, bene comune non è solo qualcosa di proprietà collettiva o aperta al pubblico, ma soprattutto qualcosa di cui tutti si è partecipi, che riporti a valori condivisi. Ed ecco perché in Italia l’istruzione, la tutela dei beni culturali, la conoscenza in quanto tale e la lettura non sono riconosciuti come beni comuni. Con il disastro che ne consegue.
Nel suo percorso, Solimine non può fare a meno di analizzare il rapporto che la conoscenza ha con lo sviluppo della tecnologia della rete. Senza chiusure preconcette, è però importante l’indicazione che fa nel ricordare che bisogna distinguere tra informazione e conoscenza. Che la sovrabbondanza di informazioni non comporta comprensione, e  che – citando Metitieri -  “La gran parte degli utilizzatori dei motori di ricerca (…) tende ad arrestarsi di fronte ai primi risultati, senza che ne vengano valutate la pertinenza, la rilevanza e l’attendibilità, e quindi senza che si possa produrre un’appropriazione critica e consapevole dei contenuti”.
Forse non ci sono qui le indicazioni per uscire dalla crisi del paese; ma mentre c’è chi continua a pensare che ci vogliano subito nuove leggi contro la corruzione e la criminalità, qui viene almeno ricordato, dati alla mano, che “i paesi nei quali i livelli di istruzione e di partecipazione alla vita culturale (…) sono più alti”, quelli “in cui le biblioteche marcano una presenza più incisiva, sono anche i paesi in cui i livelli di competitività sono più elevati, la corruzione e la criminalità pesano in misura minore, la parità tra i sessi è pienamente acquisita”. 
E’ lì, dunque, nella battaglia per la cultura, che si decide se sapremo batterci contro il declino.


(Da “L’Immaginazione”, settembre-ottobre 2014)

martedì 14 ottobre 2014

GUIDO MARIA BRERA:
E SE LA NOSTRA ECONOMIA FOSSE NELLE MANI DEI DIAVOLI?


Ma voi avete una vaga idea di cosa voglia dire guadagnare trenta milioni di dollari l’anno? Ecco, è una dimensione che noi umani, piccolo borghesi, non riusciamo nemmeno a figurarci. Eppure ci sono dei signori che lavorano nella grande finanza che guadagnano così. Riusciamo invece a figurarci benissimo che ci siano dei momenti in cui una dozzina di uomini potentissimi decidono, nel chiuso di un loro lussuoso ufficio, che cosa ne sarà di un intero paese, della sua economia, della sua valuta. Lo immaginiamo perché è sempre consolatorio pensare che i nostri guai dipendano da un grande complotto, da poteri oscuri, da circoli occulti, da società segrete. Subito dopo, di solito, ci convinciamo che non può essere così, che la realtà è più semplice, e che se c’è la crisi, se l’economia non tira, se il pil non cresce, in fondo, come pensa la Merkel, la colpa è solo nostra.
Forse, invece, sbagliamo. A leggere I diavoli (sottotitolo: La finanza raccontata dalla sua scatola nera), Rizzoli, 2014, di Guido Maria Brera, non solo veniamo a sapere come vivono, quei signori da trenta milioni di dollari, ma anche che può succedere che l’attacco a un paese, il nostro, e a una moneta, l’euro, sia pianificato e portato avanti da un gruppo di speculatori talmente spregiudicati da non essere nemmeno marginalmente interessati alla ricaduta umana e sociale di un’operazione tanto brutale.  
Con il ritmo di un giallo avvincente, Brera racconta la storia di uno di quei diavoli, simili ai “diavoletti di Maxwell” che, se esistessero, cambierebbero le leggi della fisica; e che nella finanza esistono, perché sono quei sensibilissimi e temerari giocatori di borsa che fanno i soldi con i soldi e decidono, loro, come devono andare le cose. I prezzi, i mercati, sono governabili. “Il mercato sono io”, dice un diavolo. Ed è capace di giocare, manipolando gli scambi, fino a far salire e scendere i prezzi in funzione dei suoi investimenti.
 La descrizione di come si vive alla guida di un gruppo di operatori che passano la vita sui loro computer a comprare e a vendere i milioni come fossero pizzette è, da sola, un romanzo a sé. Sono uomini che devono vivere in anticipo: “Oggi non è mai oggi. Oggi è già domani”. E “Il passato è un posto strano”, qualcosa che non si può nemmeno quotare in borsa, e quindi, in fondo, inutile e senza senso.
Il protagonista, Massimo, venticinque completi blu tutti uguali, ha sì una moglie, dei figli, una passione per il mare e per la pesca, un albero di natale in casa. Ma è innanzitutto un trader italiano che è diventato il leader di una merchant bank londinese, filiale di una grande banca americana. La sua vita è soprattutto, quasi tutta, lì, nel grande ufficio, il floor: “Nel floor c’è il riflesso del mondo. Fuori dal floor c’è il mondo, ignaro del proprio riflesso”.
Ma succede che i protagonisti di questo “grande gioco” decidano di far fuori il mercato italiano, di far precipitare le quotazioni, di far lievitare lo spread. E che Massimo, il nostro protagonista, si trovi in mezzo a una grande speculazione che punta a ridurre l’Italia a uno pae marginale, dal quale poi, una volta consumata fino in fondo la crisi, spremere lavoro umile a basso costo. E si ribella. Lascia il suo pagatissimo posto a Londra, lascia la moglie, che non può capirlo, lascia un intero mondo, basato su false verità economiche e speculazioni spregiudicate che hanno conseguenze mostruose. Perché non se la sente di portarne la responsabilità morale. Memorabile lo scontro tra il cinico americano e il sensibile italiano: “La finanza doveva essere la cinghia di trasmissione, invece è diventata il centro di tutto”. (Lo penso da un pezzo anch’io, Ndr.) “Abbiamo venerato il denaro come un feticcio. Abbiamo comprato giudici, politici, agenzie di rating e sindacati. Abbiamo cambiato leggi e commissariato Paesi, ma non siamo riusciti a creare ricchezza vera per tutti”. E già, qualcosa di cui in tanti avevamo avuto il sospetto.
Non anticipiamo qui un finale al cardiopalmo, ma possiamo dire che si intuisce che l’autore debba aver avuto un’esperienza molto simile, e che alle volte l’etica possa far capolino anche nei centri più cinici del potere economico. Quello che colpisce è l’idea che, appunto, possa essere andata così anche per quel che riguarda la crisi dei PIGS, della Grecia, della Spagna, e soprattutto dell’Italia. Che i complotti (finanziari) possono esistere davvero e che dei signori, a Londra e a New York, dietro i loro computer, senza avere niente a che fare con l’economia reale, con chi lavora e produce, con le fabbriche e i commerci, con la ricerca e gli scambi di culture e di conoscenze, possano far declinare l’economia di un intero paese, impoverirne la classe media, succhiarne risparmi e risorse e trascinarlo verso la marginalità.
Questo è  un romanzo. Ma mette fastidiose pulci negli orecchi. E se quei complotti, quei gruppi di potere, quei circoli occulti esistessero davvero, se qualcuno, complice la Germania, avesse deciso – indipendentemente dal fatto che noi abbiamo fatto o no i “compiti a casa” – che dobbiamo essere la parte debole dell’economia europea, e che si debba pagare, tutti noi meridionali, un vassallaggio alle economie più potenti?