domenica 30 novembre 2014


                                           ANVEDI! LA ROMA BUGIARDA DI FILIPPO LA PORTA

Forse è vero che la sostanza di Roma, come città, sta tutta nel tragitto concettuale che separa due modi di interloquire che i suoi abitanti usano per commentare ogni fenomeno che entri a far parte della loro esperienza: “Anvedi!” e “Chettefrega?”. Il primo, una manifestazione di pacato stupore per la varietà degli aspetti del mondo, e l’altro, un po’ pateticamente menefreghista, tipico del distacco un po’ cinico di una popolazione che “non crede in alcuna dialettica storica poiché in vita sua ne ha viste troppe”.
Sono tra le prime note che incontriamo nella perlustrazione dei luoghi della capitale che fa Filippo La Porta nel suo Roma è una bugia, uscito nella fortunata collana “Contromano” di Laterza. Indagine particolarmente complessa, non solo perché la nostra capitale è un palinsesto di evi storici, di stili architettonici e di tracce di cultura che si sono sovrapposte e conglomerate negli ultimi 2.500 anni, creando un groviglio sublime quanto inestricabile; ma anche perché se Roma c’è ancora, i romani, invece, da tempo, non esistono più.
Assottigliatisi a una piccola fetta della città imperiale, i veri romani ormai sono probabilmente quasi tutti concentrati in rioni periferici. Dunque l’identità romana è artificiosa, non ha radici. I due milioni e passa di romani di oggi sono di recente immigrazione: arrivati, nei secoli, con le ondate di urbanizzazione, e soprattutto con quelle successive al trasferimento della capitale dopo l’Unità. Giustamente La Porta ricorda che probabilmente l’unico nucleo autenticamente romano, la memoria storica della città, stabile nella capitale non solo d’Italia, ma del cattolicesimo, dal secondo secolo prima di Cristo, è – paradossalmente - quello della comunità ebraica. Al ghetto, non a caso, “si trova la cucina verace di Roma”. Cibi “torbidi e insolenti” – La Porta cita Manganelli – fritti e frattaglie, pesanti e poveri, ma di vera tradizione. E si trova anche “il fondo insondabile del temperamento romano, composto di giocosa tolleranza e dolce sbracatezza”.     
Ma La Porta, invece, è un romano vero. Per questo il suo libro, e non poteva essere altrimenti, è insieme un addentrarsi nei singoli rioni e nei loro monumenti, e una autobiografia a sprazzi, fatta dell’incrociarsi dei tragitti della vita dell’autore con i luoghi significativi della città. A cominciare dall’Aventino, una sorta di enclave borghese, tranquilla al limite del surreale, a due passi dal rumoroso Testaccio e dalla monumentale Caracalla. Tutti posti che sono stati, volta a volta, scenari di famosi film, abitazioni di scrittori e poeti, oggetto di descrizione di intellettuali in transito. Un rione di ambasciate, chiese, di gente che viaggia, quasi l’emblema di una città che contiene un enigma: perché è il teatro “di un’apocalisse sempre rinviata”, di qualcosa che sembra sempre sul punto di finire, di dissolversi.
E ancora lo spazio di piazza del Popolo, metafisico, quasi deserto, tanto da far quasi rimpiangere il tempo in cui era un immenso parcheggio; o di Trastevere, zona un tempo popolaresca e rissosa, oggi concentrato di turisti in cerca si esotismo capitolino. Il Pantheon e gli obelischi, via Merulana, i Parioli, nella loro “scintillante automitologia”; il liceo frequentato da La Porta, e i cimiteri, a partire da quello acattolico (“degli inglesi”, per i romani), con le ceneri di Gramsci. Fino alle periferie, fino a quella specie di cinta muraria di automobili che è il GRA.
Raccogliendo i fili delle testimonianze di scrittori italiani e stranieri, La Porta viene costruendo la trama della sostanza di una città inafferrabile. Perché è vero che Roma “assolve ogni peccato”, per tornare a Manganelli, e “possiede un’infinita, saggia tolleranza”. Ma è anche vero che la sua pigrizia fisiologica sembra coprire un vuoto, un bisogno di prendere tempo di fronte a una fondamentale mancanza di vere prospettive. Perché Roma è anche una sorta di grande laboratorio nazionale dove, quasi nell’indifferenza, ciò che cambia viene sperimentato per diventare fenomeno diffuso. A partire dal momento in cui a Roma (e in particolare alla Rai, aggiungo io) si è consumata una frattura tra la cultura dell’industria e quella dell’accademia, che ha prodotto il declino di cui oggi portiamo le conseguenze. O si sono lanciati i progetti di grandi opere architettoniche, in definitiva di poca sostanza, che hanno drenato i finanziamenti che sarebbero bastati per un’infinità di opere piccole, che avrebbero potuto essere necessarie e salvifiche.
C’è, nella vita romana, come una sensazione di struggimento, di dissoluzione, confortata dall’imprecisione degli appuntamenti, dalla approssimazione degli impegni presi. Lì, dice de Quevedo, “il fuggitivo permane e dura”. Ecco perché, per La Porta, Roma è una bugia. Perché finge, inganna – se e gli altri. Dietro le sue scenografie barocche, dietro i suoi tramonti “che promettono una felicità illusoria”, rinviando, procrastinando, cerca di evitare che la sua eternità diventi caduca.

    (Da "L'immaginazione", n. 283) 
                                                                                                                       SVELAMENTI

Giornalaio di Linate; dietro il bancone ci sono due signore, non giovanissime. Arriva un cliente: "Cercavo un libro di Manfredi, mi pare si intitoli : Le meraviglie del passato". E le signore, pronte: "Siamo noi, le meraviglie del passato".