domenica 25 ottobre 2015

MA PER CAMBIARE BISOGNA CONOSCERE LA STORIA


La prova del potere, di Giuliano Da Empoli, Mondadori, è un libro insieme paradossale, irritante e stimolante. Paradossale perché dopo aver sostenuto a più riprese che per la generazione dei trenta-quarantenni (TQ, s’intende) “gli esempi del passato sono un grimaldello per rimettere in gioco il presente”, poi racconta la storia italiana in modo fantasioso, per non dire impreciso e falsato. Irritante perché trasforma quello che vorrebbe essere un manifesto politico e culturale per i TQ in uno storytelling divagante e prolisso, tutto citazioni di film e libri, poco rigorose o strumentali. E stimolante perché, almeno in alcune parti, individua il taglio giusto per leggere il nostro presente e alcuni dei suoi problemi.
La cosa più irritante è il modo in cui Da Empoli parla del ’68,  dei suoi valori e di ciò che ne è conseguito, confondendolo con il movimento hippy, con gli slogan “desideranti” del ’77 e degli anni del Craxismo. Il ’68 ha coltivato certo anche la libertà sessuale, ma soprattutto quella civile e politica, con rigore a volte persino eccessivo, e non soffriva del complesso di Peter Pan; sue conseguenze non sono un paese del bengodi, ma l’autunno caldo, le grandi conquiste economiche e sociali e le grandi riforme civili degli anni ’70: lo statuto dei lavoratori, la liberalizzazione dell’accesso agli studi universitari, la riforma sanitaria, la legge 180, il nuovo diritto di famiglia ecc.
Da Empoli parla di un’Italia che negli anni ’50 e ’60 si divertiva: certo, una esigua percentuale di alto borghesi ha dato vita a un periodo di grande felicità creativa e anche mondana. Ma avrebbe dovuto ricordare i milioni di emigranti che in quegli anni hanno lasciato la fame del Sud per incontrare il razzismo e la scarsa solidarietà dei settentrionali, e il lavoro alienante e sottopagato delle fabbriche del Nord. Sai che divertimento.     
E sostiene (copyright Magrelli) che Berlusconi ha trovato pronto un elettorato “formato dalla rivoluzione dei valori del Sessantotto”. Ma Berlusconi è stato il sintomo di una malattia che comincia con gli anni ’80, e che coincide con il raggiungimento del benessere e lo sviluppo di un ampio ceto medio, che non sente più le spinte al cambiamento e alla solidarietà perché ha la sensazione che non ci sia più niente da conquistare. Il ’68, con Drive In e con le olgettine, non c’entra niente.
Non convince infine il parallelo tra l’Italia e Venezia, che vorrebbe farci credere che una città-museo (e quindi un paese-museo) si possono salvare dal declino con intelligenti iniziative culturali, come è stata la Biennale per Venezia. In Italia ci sono più festival culturali che in tutto il resta d’Europa, ma il Pil non cresce lo stesso.
Difficile affermare, infine, che “piccolo è bello”, che l’Italia ha un suo modello di sviluppo e non ha bisogno di scimmiottare nessuno. Vero per il gusto; drammaticamente falso per il resto. Abbiamo alle spalle un modello di furbizia, illegalità diffusa, opportunismo, mancanza di senso dello stato e familismo amorale che è all’origine della nostra crisi; un sistema inquinato da mafie diffuse, apparati dello stato corrotti, giustizia inefficiente e evasione fiscale di massa che non solo non invidia nessuno, ma che è il problema per cui è difficile che qualcuno venga a investire nel nostro paese e impianti le grandi imprese ad alta tecnologia che producono ricchezza e lavoro.
Da Empoli invece centra il problema quando dice che i continui allarmi sul populismo sono astorici: non esistono sistemi politici efficienti che non abbiano una certa dose di populismo. E ha ragione quando contesta le giaculatorie dei principali commentatori che non sopportano il governo in carica, il suo agire e le riforme che mette in atto con critiche che hanno il fondamento in un mondo che non c’è più, e che è inutile rimpiangere. E che i vecchi partiti, circondati da intellettuali organici, fondazioni e organi di stampa embedded non erano meglio dei partiti “liquidi” della postmodernità. Ha ancora ragione quando dice che non dovrebbero esserci tabù: non nell’immaginare che “musei, istituti, associazioni che hanno esaurito la loro funzione” potrebbero essere chiusi. Che la politica culturale si è ridotta alla gestione delle sovvenzioni alle istituzioni. E che si possono riorganizzare gli apparati dello stato che servono solo a moltiplicare il clientelismo e il voto di scambio.
Ha ragione infine a dire che la generazione TQ deve far saltare i codici, perseguire la trasgressione e uscire dall’ambiguità e dall’incertezza. Mi permetto di aggiungere che lo potrà fare soprattutto se saprà utilizzare l’esperienza di chi è più anziano, che magari sa osare, ha letto con attenzione il nostro passato e non cade in errori di valutazione. Rischio che nessuno, ancorché giovane, può permettersi di correre.


Da “L’Immaginazione”, ottobre 2015

lunedì 5 ottobre 2015

SONO DIVENTATO REAZIONARIO
E NON MI SENTO IN COLPA

Aiuto, mi sono scoperto reazionario e antidemocratico. Sarà l’età, saranno i tempi cupi, sarà l’incipiente tramonto dell’Occidente. Ma mi scopro schierato con quelli che illustri commentatori considerano qualunquisti, deterministi, rinunciatari. E il problema è che non mi sento affatto in colpa.
Mi è successo leggendo un accorato intervento di Roberto Esposito, del quale spesso condivido le opinioni, sulla Repubblica del 4/5/2015. Esposito ripercorre alcuni dei segnali di crisi della democrazia, dal carattere oligarchico delle istituzioni alla ridotta percentuale di votanti, dal ruolo dei mercati e della finanza nelle politiche economiche a quello dei media nella formazione dell’opinione pubblica; ricorda che ampie fasce della popolazione si trovano escluse dai processi decisionali e che le spinte antipolitiche allargano il solco che divide i cittadini dalle stanze del potere.
In conclusione, Esposito si chiede come si possa rispondere a questa deriva autodistruttiva delle democrazie, e risponde che il problema riguarda la loro sostanza, che oggi sembra risolversi in inutili discussioni tecniche (e il nostro pensiero va al dibattito sulla riforma del senato, che sembra aver bloccato per mesi la vita del Parlamento senza produrre un gran che), mentre dovrebbe consistere in grandi progetti e principi fondatori. E che la politica dovrebbe essere “il luogo in cui si confrontano valori e interessi diversi e contrapposti”.
Ecco, è leggendo queste ultime righe che mi sono chiesto: ma non è che, per caso, la banalità del dibattito politico e il distacco che ne hanno i cittadini nasce dal fatto che nel nostro paese – e forse in tutto l’Occidente – i valori e gli interessi che si contrappongono non hanno niente a che fare con i grandi progetti sociali, con le aspirazioni di rinnovamento universale, con le ideologie, in definitiva, come accadeva una volta, ed è per questo che il dibattito è sempre più sterile e finisce per nascondere soltanto interessi di parte e giochi di potere? 
In effetti, tramontati da un lato il progetto della costruzione di uno stato rigorosamente egualitario, e dall’altro la difesa di regimi conservatori e passatisti, il principale obiettivo della democrazia, oggi, può essere soltanto quello di funzionare. Dentro, con le oscillazioni che ci sono sempre state, ci potrà essere più o meno egualitarismo, più o meno conservazione di privilegi e antichi pregiudizi; ma il vero progetto di chi governa non può più essere quello di una palingenesi universale o di un ritorno ad antichi regimi ormai morti e sepolti; non può che essere quello di governare il più a lungo possibile, con il consenso di chi gli ha dato fiducia, rispettando un programma che può avere risvolti anche significativi, ma non potrà mai essere di cambiamento radicale. Non ci sono contraddizioni economiche e  sociali di tale portata da giustificare governi rivoluzionari. In nessun senso.
E allora? Obama ha varato riforme “di sinistra”, senza produrre rivolte, ma sarebbe difficile attribuirgli un grande progetto sociale; la Merkel governa con l’appoggio di tre quarti del Parlamento e sembra orientarsi soprattutto a seconda delle sensibilità del suo elettorato; in Inghilterra si sono alternati, negli ultimi decenni, governi conservatori e laburisti con programmi molto simili e senza clamorose lacerazioni. E’ grave? E’ la fine della democrazia? O non è piuttosto che comincia a funzionare - in questi paesi da tempo, e ora anche in Italia - un riavvicinamento di “valori e interessi”, appunto, per cui uno schieramento non è più sempre in lotta con l’altra metà del paese, e non vediamo più le opposizioni come un nemico da sconfiggere, ma solo come un avversario, con cui si può persino concorrere alle decisioni più significative? E se è così, perché meravigliarsi se i votanti sono pochi: mica si chiede di scegliere tra libertà e schiavitù. Si vota per un po’ più di diritti civili, o un po’ più di conservatorismo religioso, per un po’ più di autonomia energetica o per un po’ più di rispetto per l’ambiente. Per avere un governo decente, che non anteponga interessi privati a quelli della collettività. Ma non ci sono grandi rivoluzioni, all’orizzonte. Ed ecco perché non è drammatico, se tanti cittadini non votano. Specie considerando la qualità della classe dirigente.
Certo, in Italia, la strada per diventare un paese civile è lunga. Bisognerà che prima o poi qualcuno metta in votazione una legge sul conflitto di interessi, che si sani la vergogna della mancanza di tutele per le coppie di fatto, che si garantisca decentemente il diritto al lavoro, che si conceda in tempi ragionevoli la cittadinanza agli immigrati. E soprattutto che si investa sulla crescita culturale della nazione. Perché qui, a mio avviso, è il nodo, e qui si gioca davvero la tenuta della democrazia. Mi conforta in proposito Maurizio Ferrera, sul Corriere del 5/10/2015, che condivide la diagnosi di una democrazia (anzi, di una socialdemocrazia) in crisi, con pochi progetti. Ma aggiunge che, per rilanciare la crescita e l’occupazione, “senza mettere in discussione né la logica di mercato né gli equilibri di bilancio”, la leva del cambiamento sono “le politiche sociali e l’istruzione”.

In passato riforme importanti come quella del divorzio, dell’aborto, della riforma sanitaria, del diritto di famiglia sono state votate da parlamenti in maggioranza conservatori. Succedeva perché il paese era maturo per avere leggi moderne, e infatti ne ha respinto l’abolizione chiesta con referendum popolari. Se il paese non cresce culturalmente, è difficile che chieda alla sua classe dirigente, indipendentemente dal suo colore, cambiamenti significativi. Se non cresce la consapevolezza collettiva, però, non è solo colpa di chi ci governa. E’ colpa dei media, della scuola, della famiglia. Cioè di ciascuno di noi. Troppo comodo dare la colpa a chi ha il potere: lo abbiamo scelto, lo sosteniamo e lo sopportiamo noi. A me sembra che sia la coscienza di ognuno, non le tecniche  parlamentari, non le ideologie epocali, non i sogni utopistici, a mettere all’ordine del giorno i progetti necessari per modernizzare davvero il paese; e garantire la tenuta della democrazia. 

sabato 1 agosto 2015

RISENTITI E RASSEGNATI

Forse, il motivo per cui i figli del ’68 (e del ’77) sono convinti di aver perso, è che hanno vinto.
E’ la riflessione che mi ha suggerito la lettura del saggio di Guido Mazzoni, I destini generali, pubblicato da Laterza. Perché l’analisi colta, profonda e ricca di riferimenti alla saggistica politica e a quella psicanalitica di Mazzoni parte dall’assunzione del concetto di “mutazione antropologica”, che ha segnato il pensiero del Pasolini luterano, per tornare alla dialettica dell’illuminismo francofortese e al pessimismo di Kojève, fino a una conclusione intelligente ma assai negativa, e cioè che “non esiste alcuna controforza organizzata che proponga un’idea di mondo alternativa a quella occidentale”, e che questo è un bel guaio.
Un guaio perché, malgrado la Western way of life abbia “distribuito alle masse comodità che in passato spettavano solo alle élites”, per Mazzoni l’io occidentale è incoerente e vive tranquillo, indifferente e soddisfatto, sentendosi esonerato dalla politica. E spiega come la metamorfosi che si è verificata abbia a che fare con le forme e le politiche del desiderio, e che le masse l’abbiano vissuta come una conquista. Un progresso fatto di libertà soggettiva, di disponibilità di beni materiali e delle esperienze una volta riservate a pochi eletti. Metamorfosi che ha comportato la nascita di un’estesa classe media edonista, nichilista, individualista e narcisistica, “a proprio agio nel vitalismo, nel consumo, nella libertà sessuale”. E che ha introiettato il  libertinismo e gli atteggiamenti trasgressivi un tempo appannaggio delle avanguardie intellettuali.
Per Mazzoni, il risultato è che si sono persi i punti di riferimento di una generazione che nel cambiamento credeva: i comportamenti si sono secolarizzati, patria, rivoluzione, impegno e militanza sono parole che hanno perso significato, e anche il senso del dovere, l’etica dell’emancipazione, il rispetto per il sistema sociale di appartenenza si sono allentati. Dunque, l’età delle rivoluzioni è stata sconfitta e la metamorfosi è risultata funzionale a un capitalismo di nuovo tipo, più universale e più pervasivo.
La conclusione però è che Mazzoni, di fronte al nuovo quadro sociale, culturale e psicologico, si sente smarrito, perché non ha un modello alternativo da proporre, e riconosce che nessuno vorrebbe tornare indietro, e rinunciare alle comodità del capitalismo postmoderno: cibo, tecnologia, comfort, mobilità, diritto alla libera espressione del pensiero.
Ecco, qui mi pare che si debba inserire una riflessione che né Mazzoni (troppo giovane) né chi ha vissuto il ’68 o il ’77 sembra disposto a fare. Se la mutazione antropologica temuta da Pasolini è avvenuta, è proprio perché certe conquiste hanno allontanato il bisogno di immaginare un mondo diverso e una organizzazione sociale più giusta. Conquiste che, mi pare evidente, sono anche il frutto delle lotte di quella generazione e della presa di coscienza collettiva che ne è derivata. Se oggi è difficile proporre nuovi modelli di mobilitazione, questo è dovuto al fatto che nessuno crede più nella realizzazione del comunismo e in un progetto di rivolgimento generale della società. E che la progressiva realizzazione di ideali socialdemocratici impedisce lo sviluppo di conflitti drammatici.
E’ un male? Soltanto perché c’è chi ha nostalgia di manifestazioni di piazza, di una fede sacrale in un futuro radioso, di un risentimento sociale che non ha più motivo di essere? Mi pare di cogliere, nel testo di Mazzoni, una sorta di rimpianto per un periodo in cui c’erano tanti motivi per augurarsi una rivoluzione, mentre oggi non sapremmo più trovarne uno. Ma non è forse in questa assenza di drammatiche diseguaglianze, di ingiuste divisioni di classe, di condizionamenti sessuali, di mancata emancipazione femminile che si è inverata la scommessa di quella generazione? E non è proprio in quella visione “politeista”, che Mazzoni individua come un problema, che è nata la libertà da rigide fedi e da ideali rigorosamente condivisi? I figli del ’68, invece, sembrano risentiti e rassegnati, come se gli fosse stata tolta la possibilità di continuare all’infinito una lotta che, in gran parte,  ha dato i frutti che si proponeva di ottenere.
Che poi la nostra sia una società profondamente imperfetta, liquida, frammentata, edonista e senza ideali, è verissimo. E infatti ci sono mille motivi per immaginare nuove mobilitazioni. Ma senza consapevolezze collettive non può accadere. Bisogna che quel che preme alle porte prenda corpo, diventi parola d’ordine di nuove avanguardie, per poi diventare patrimonio comune.
Per ora, mi pare si possa dire che le ideologie non siano state assassinate, ma siano morte di morte naturale, per esaurimento del loro ciclo; che nuove scommesse debbano ancora nascere e nuovi obiettivi concretizzarsi; che le forme di mobilitazione e di solidarietà del passato siano morte per sempre e che quello che accadrà domani non possa assomigliare a quello che è stato ieri. Che ci piaccia o no.
E piuttosto che cullarsi nella rassegnazione e nei risentimenti, chi ne ha la forza può mettere le proprie risorse al servizio del nuovo progetto sociale e politico che si farà avanti, accettando la prospettiva che non avrà niente a che fare con i gloriosi movimenti, le poderose manifestazioni, le “belle bandiere” del passato.


(Da “l’Immaginazione”, luglio 2015)

mercoledì 22 luglio 2015

IL RESISTIBILE AVVENTO DEL LIBROIDE

Derrick Storm, che la Cia chiama quando si tratta di fare indagini riservate e segretissime, di ritorno da una vacanza sulle Alpi, salva l’aereo su cui sta volando inerpicandosi, con le sue doti di rocciatore, sull’ala dell’aereo e riparando un inspiegabile guasto. Ma altri aerei hanno incontrato gli stessi problemi e sono precipitati, con importanti personalità a bordo. Storm indaga, viaggiando tra Monaco, Panama e l’Egitto, incontrando donne bellissime e terroristi fanatici con progetti diabolici di sottomettere il mondo con un’arma letale…
Questa la sostanza di Deadly Heat, di Richard Castle, Fazi editore, 2015. Un giallone pieno di ritmo, con tratti che ricordano il Fleming di 007 .
Certo, la scrittura è piuttosto piatta, con parecchie cadute di stile. Il libro, però, nasconde un piccolo mistero, che mi è stato segnalato dall’amico Giorgio Casadio. Se diamo un’occhiata alle bandelle, scopriamo che Castle è l’autore di numerosi bestseller, che il suo primo libro è stato pubblicato quando andava ancora al college e che ha meritato un premio per la letteratura del mistero. In quarta di copertina c’è la foto di un bel giovane, sotto la quale però compare non un nome, ma “American Broadcasting Companies, Inc”. Per essere sicuri di questa paternità industriale basta andare al copyright, dove troviamo la conferma, perché non è del signor Richard Castle, ma degli ABC Studios, la famosa industria televisiva. E in effetti Castle è il protagonista di una serie di telefilm gialli, della ABC, trasmessi anche in Italia, in cui è uno scrittore che lavora assieme a una detective (come i protagonisti del libro). La foto della quarta, infine, è quella dell’attore che impersona Castle nel telefilm, un certo Nathan Fillion.
Notizie confermate da Wikipedia, che allega la foto del solito attore belloccio, e ci racconta che alcuni dei libri di Castle sono degli pseudobiblion (cioè libri immaginari), che venivano citati nella prima serie del telefilm, e che sono stati scritti solo in seguito al successo del prodotto televisivo. Significativo infine che la serie televisiva, apparentemente ambientata a New York, viene girata a Los Angeles. Un gioco di specchi, una serie di indicazioni che si rimandano l’una all’altra, nomi di personaggi che coprono altri personaggi, senza darci spiegazioni chiare.
Se andiamo a vedere come Amazon pubblicizza il libro, poi, scopriamo che “Malgrado sia il personaggio di una fiction, Richard Castle pubblica e promuove i suoi libri nella vita reale”.
In rete, però, c’è anche un sito della serie italiana dove, a un ammiratore che chiede: “Chi scrive i libri di Richard Castle?”, si risponde: “Ovviamente un’altra persona, dato che Castle è un personaggio immaginario”. Dunque, il problema è che, contrariamente a quanto vorrebbe farci credere il risvolto del libro, Castle-scrittore non esiste, e nessuno ha la paternità di questi libri. Nel sito, invece, ci sono commenti entusiastici di lettori convinti che l’autore sia l’attore Fillion, o che Castle esista davvero. Solo un lettore, confuso, alla fine si chiede: “Ma chi ca… li scrive, questi libri?”. 
Possiamo immaginare che i libri siano, semplicemente, un prodotto industriale, come quello cinematografico: uno scrive un soggetto, altri scrivono la sceneggiatura, un revisore dà un po’ di unitarietà al racconto. Una catena di montaggio che, sia pure con qualche meccanicità, funziona.   
Ora, non mi pare ci sia niente di immorale a produrre libri, pseudolibri o libroidi, non so come chiamarli, con un metodo industriale. Lo si fa da sempre col cinema e con la tv; perché non farlo coi romanzi? Certo, bisognerebbe almeno dichiararlo, ma non è un processo produttivo vietato. Però, come si fa a produrre un buon romanzo con tanti autori? Che stile avrà mai? Che personalità trasparirà da quelle pagine? Potrà contenere le ansie, i dubbi, i problemi del mondo che descrive? E considerato quanto si è lottato per superare la frammentazione tayloristica del lavoro, possibile che adesso la si applichi alla produzione intellettuale? Perché dobbiamo abbassare il libro allo stesso livello di un prodotto metalmeccanico? Che se ne trae?

A meno che, dopo questo passo verso l’industrializzazione della scrittura, il destino della produzione del libro, come quello dell’automobile, non sia quello di passare dalla catena di montaggio alla automazione, alla linea robotizzata. Ecco, forse la ABC ci sta già pensando. Perché non far produrre, in serie, a un buon computer, dozzine di romanzi che prendono spunto dalle serie televisive? Romanzi scritti dal tenente Colombo, dall’ispettore Barnaby , dal commissario Montalbano? Be’, non vedo l’ora.
Sono in ritardo, terribilmente in ritardo.
Credevo che fosse tempo di superare il bicameralismo,
e non mi ero accorto invece che è il senato
che ci ha salvati finora dall’avvento di una dittatura.


Poiché se ne parla da anni, mi ero illuso che ci fosse una convergenza di opinioni sull’opportunità di superare il bicameralismo, in Italia. C’è stata invece una levata di scudi di fronte al progetto di riforma costituzionale che prevede un senato di soli 100 membri, non elettivo, con un ruolo limitato e soprattutto senza il potere di dare o togliere la fiducia al governo. Certo, a me era parsa una riforma timida: mi sarebbe parso molto più sensato eliminarlo definitivamente, il senato, limitandosi a chiamare qualche rappresentante di comuni e regioni ad eleggere il Capo dello stato e le altre cariche di rilevanza nazionale.
Invece vari commentatori, e soprattutto Eugenio Scalfari, mi hanno fatto capire che sarebbe un errore. In particolare il 19 luglio, nella sua “omelia” domenicale su Repubblica, Scalfari ci ha ricordato che il senato ha un essenziale ruolo di garanzia e di contrappeso alle altre istituzioni dello stato, e soprattutto che, nel novembre del 2011, se non ci fosse stato il voto contrario del senato, non saremmo mai riusciti a liberarci di Berlusconi.     
Il giorno dopo Scalfari ha dovuto rettificare, ricordando che non è stato il senato, ma la camera a sfiduciare nel 2011 Berlusconi. Niente di male: una piccola svista, onestamente e tempestivamente corretta dal Nostro. Si potrebbe persino argomentare che l’importante non è quale sia stato, dei due rami del parlamento, a sfiduciare il governo, ma che i due rami abbiano ruoli, meccanismi elettivi ed età eleggibile diversi, e quindi svolgano l’uno il ruolo del controllore di ciò che fa l’altro. Il fatto è che Berlusconi era altrettanto forte nelle due camere, ed è stato il venir meno dei voti della Lega, e non il ruolo di contropotere del senato a farlo cadere.
Se questo è vero, tutta l’argomentazione perde senso. Anche se, per il lettore che non ricordasse il meccanismo argomentativo, la precisazione del giorno dopo non modificherebbe quanto letto il giorno prima, a me sembra che Scalfari avrebbe dovuto ricordare che questo dettaglio cambiava qualcosa. Anzi, cambiava tutto, poiché l’argomentazione sull’essenziale ruolo del senato nella difesa della democrazia in Italia sembrava reggersi proprio sull’occasione nella quale aveva sollevato il paese dal pesante giogo berlusconiano. Il che non è.
A me pare che l’occasione meriti una riflessione. Perché da più (ed eterogenee) parti si sostiene che l’eliminazione del senato metterebbe in pericolo la sopravvivenza della democrazia? Forse che il bicameralismo ci ha salvato, negli ultimi vent’anni, dall’esistenza di un drammatico conflitto di interessi, dall’abnorme concentrazione di potere editoriale nelle mani del presidente del consiglio (tutte le televisioni generaliste e alcune importanti testate nazionali sono state sotto il controllo di Berlusconi per due decenni, e in buona parte lo sono ancora), dal varo di una legge elettorale che gli stessi estensori definivano “una porcata”, per non citare che le più clamorose violazioni delle più elementari norme della vita democratica del paese. Cosa faceva l’indispensabile senato, mentre il paese andava a picco e ci rendevamo ridicoli davanti al mondo intero? Niente, perché era una fotocopia della camera dei deputati, e lo sarebbe di nuovo se passassero le obiezioni di Scalfari, della sinistra Dem, di variegate parti della destra e di altri partitini assortiti.
C’è qualcosa invece che non sarebbe accaduto, se nella storia repubblicana non fosse esistito il senato. Per esempio, il palleggio tra le due camere di ogni legge che ledesse qualche interesse personale o di categoria che un sia pur piccolo spicchio parlamentare rappresentava. O l’infinito rimpinzarsi, nel loro andirivieni, delle leggi finanziarie (o come si vogliano chiamare) di emendamenti, aggiunte, rifiniture destinate a premiare più o meno significativi interessi locali, di parte, di corporazioni, di correnti di partito, di singoli parlamentari. Non sarebbe accaduto, forse, che semplici interventi legislativi restassero lettera morta, senza decreti attuativi, perché incontravano l’opposizione di minime parti di una delle camere. O che il pletorico numero di parlamentari, i loro uffici, i loro portaborse, l’enorme apparato burocratico che le due istituzioni si sono date, il tutto condito con stipendi fuori misura, benefit strepitosi, Tfr precoci, e pensioni e vitalizi di entità ingiustificate producessero una giustificata ondata di rifiuto della politica, dei partiti e delle istituzioni, e l’insorgere di movimenti di protesta che rendono difficile l’amministrazione stessa della nazione.
Vogliamo aggiungere che l’esistenza di quasi mille parlamentari – senza distinzione di schieramento, purtroppo – rappresenta uno stimolo allo sviluppo della propensione italiana al clientelismo, alla raccomandazione, al nepotismo, alla tendenza di trovare il modo di farla franca malgrado accertate responsabilità e quindi, per dirla tutta, un sostegno per la tendenza all’illegalità di massa che rende così difficile organizzare l’Italia come un paese moderno.   
Un’ultima cosa: si dice che un senato non eletto direttamente dai cittadini ma nominato dagli enti locali sarebbe vittima della corruzione e dell’inefficienza che caratterizza comuni e regioni. Curioso ragionamento. Forse che, quando votiamo per il parlamento, siamo onesti e oculati, mentre quando votiamo per la regione siamo corrotti e clientelari? Io temo che noi italiani votiamo sempre allo stesso modo. E il fatto – se accade - che nelle nostre scelte politiche prevalgano interessi personali invece che senso dello stato rispecchia purtroppo una cultura (o incultura) diffusa, che caratterizza non solo il ceto politico, ma l’intera società civile.
Ritornando alla domanda posta prima: perché allora un così vasto schieramento cerca di bloccare l’eliminazione del senato, visto che, così com’è, produce più guai che vantaggi? Temo – ma forse sono troppo pessimista - che nei partiti ci siano forti spinte a mantenere alto il numero dei parlamentari perché sono posti di lavoro, tra gli eletti e il largo indotto, che aiutano la loro stessa sopravvivenza. Temo anche che la nuova legge elettorale, assieme alla revisione costituzionale, faccia sì che alcuni, nelle forze sopravvissute alla prima e alla seconda repubblica, rimpiangano il meccanismo di alleanze e di consociazioni che permetteva anche alle forze minori e all’opposizione di avere un certo potere nel processo decisionale del parlamento. Temo infine che, magari in buona fede, ci sia una vasta parte di opinione pubblica che ha nostalgia di un ordine ormai tramontato e di un parlamento dove il dibattito era sempre ampio, aperto e democratico, ma dove nessuna forza politica aveva la forza di imporre nessun vero cambiamento, senza sottostare a piccoli e grandi ricatti delle altre.

Per concludere, può darsi che qualche rischio, ad eliminare il senato, lo si corra, non lo nego. Anche se ad ogni riforma sbagliata si può porre rimedio. Ma a me pare che il rischio più grave, in Italia, sia quello di continuare a non cambiare niente, e di farsi fermare dai distinguo e dagli allarmismi di una classe politica che non è riuscita a eliminare una sola delle storture che affliggono il paese. E non c’è niente di peggio di chi viaggia sempre con la testa rivolta all’indietro. 

venerdì 10 luglio 2015


IL PORNOLIBRO

Lo so, sono in ritardo, come al solito, terribilmente in ritardo.
Non mi ero accorto che il libro, fino a ieri consumo di un’élite intellettuale,
è improvvisamente diventato merce di consumo popolare. Almeno come simbolo…

Le ultime statistiche dicono che in Italia il numero di “lettori di almeno un libro all’anno” - curiosa categoria che, almeno su base demoscopica, dovrebbe farci risultare un popolo vagamente alfabetizzato – è in diminuzione. Personalmente la cosa non mi stupisce: non si tratta di lettori, ma di acquirenti casuali di un soprammobile da esibire sul tavolino del salotto. Che in tempi di crisi si risparmi su un cosa inutile come i soprammobili, non dovrebbe stupire nessuno. Quello che mi stupisce, invece, è che di alcuni di questi libri si possa continuare a fare pubblica esibizione come si trattasse di letteratura e non di qualcosa che ha a che fare con inconfessabili vizi privati, e cioè di bibliopornografia.
Una precisazione. A cosa ci riferiamo quando parliamo di pornografia? Per il Treccani, “Trattazione o rappresentazione di oggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore”. Insomma, il porno è un modo di rappresentare le cose in modo tale da dare la sensazione di partecipare a qualcosa di invidiabile ma difficilmente realizzabile (partecipare ad atti di sesso sfrenato, nel caso della pornografia sessuale), senza che invece se ne abbia avuto in nessun modo la capacità, il coraggio, o forse nemmeno la volontà.
Ora,  perché dovremmo limitare il concetto di pornografia soltanto all’erotismo? Come il mondo è pieno di seduttori a parole, i salotti sono pieni di madames Verdurin, di lettori velleitari, che poco sanno di lettura e di libri, ma vorrebbero tanto averne familiarità. Pensiamo un momento a cosa significherebbe lo stesso tipo di illusoria partecipazione ad atti altrettanto poco diffusi dell’erotismo sfrenato, come per esempio un rapporto di assidua frequentazione con la lettura. Ne verrebbe fuori una pornografia del libro, una bibliopornografia, una visione edulcorata e del tutto artificiosa, come nel caso della pornografia sessuale, della lettura. Né stupisce che di questa forma di godimento illusorio si siano sviluppati interi filoni, perché in fondo vantarsi della dimestichezza col libro, per qualcuno, è un po’ come per il macho latino vantarsi delle sue conquiste.
Veniamo al sodo. Solidamente in testa alle classifiche dei libri più venduti. Dimmi che credi al destino, di Luca Bianchini, Mondadori, è un accogliente polpettone sentimentale, attraversato dallo spleen di una gioventù in preda a una sfiga insuperabile, io direi metafisica, e a una tendenza alla transumanza internazionale, che ha avuto numerosi precedenti in storie di giovani che vagano per l’Europa; e in questo caso di giovani italiani trapiantati senza particolare motivi a Londra si tratta. Tra le avventure di Ornella, una ragazza un po’ sventata, della sua commessa Clara, preoccupata soprattutto di  curare il suo gatto, di un paio di sfigatoni di contorno e di un napoletano allegro e spiantato di sostegno, la vicenda scorre felicemente e il libro si lascia leggere senza troppi problemi. Un clima un po’ a metà tra i Celestini di Benni e la Belleville di Pennac. Cosa ci porta dunque alla bibliopornografia? Il fatto che Ornella è una libraia, e che tutto si svolge attorno alla sua libreria (italiana) a Londra. Bello, confortevole, illuminante: i libri fanno pensare, aiutano a vivere ecc.
Ma è proprio così? Neanche per sogno. Perché di libri, in questo romanzo, non si parla mai. Sì, si dice che “Diego [il napoletano, n.d.r.] non avrebbe mai immaginato che i romanzi potessero davvero cambiare un po’ la vita”. Ma esempi, niente. E succede che Clara si lanci nell’affermare “C’è sempre l’istante in cui un libro ti chiama”; ma a parte che vorrei sapere qual è, questo istante, ancora una volta sono affermazioni senza riferimenti bibliografici. C’è, è vero, un momento di grande felicità critica in cui Diego consiglia un libro “Perché parlava di Napoli e non era scritto da Erri De Luca”, ma è un esempio isolato. Siamo in una libreria, ma non si parla di libri: non del loro contenuto, non dei loro protagonisti, non delle illuminanti avventure e dei drammi descritti dai classici che dovrebbero avvicinarci al perché della vita. Niente. Solo amorucci e sfiga giovanile.
La libreria come luogo geometrico delle emozioni, delle passioni, degli svelamenti. Del resto altri casi non mancano: Niall Williams, in Storia della pioggia, Neri Pozza, racconta di una ragazza che è confinata a letto, ma sopravvive perché ha tanti libri intorno. E avanti con l’Assassinio in libreria, La libreria degli amori inattesi, Il segreto della libreria sempre aperta e dalla affascinante Libraia dai capelli rossi.
Un ultimo, illuminante esempio. L’apprezzato regista David Cronenberg ha dato alle stampe un romanzo, Divorati, pubblicato in Italia da Bompiani, dove troviamo, all’undicesima riga della prima pagina del testo, questa frase: “Sentiva l’odore dei libri stipati negli scaffali alle loro spalle, avvertiva il feroce calore intellettuale che emanavano”. Sic, si sarebbe scritto un tempo, in nota. Ma oggi val la pena riflettere. Il più andante romanzo pornografico non avrebbe potuto fare di meglio. In fondo se si scrivesse: “Sentiva l’odore dei sessi che si erano uniti nell’alcova alle loro spalle, avvertiva il feroce calore erotico che emanavano”, non si sarebbe discostato che di pochi gradi concettuali da quello che scrive Cronenberg. Il lettore che ne avesse la propensione, è autorizzato alla masturbazione intellettuale quanto il lettore di un sano libro porno è invitato a praticare l’autoerotismo dalla dettagliata descrizione di un atto sessuale.

E’ un problema? E’ una visione snobistica, francofortese, della lettura e della cultura popolare? Spero di no. Perché non c’è niente di male, in definitiva: l’importante è che si legga davvero. E la bibliopornografia ha ancora molto da dirci. 

sabato 9 maggio 2015

SVEVO INDAGA

Non so cosa darei per sapere come la prenderebbe, Svevo, a trovarsi protagonista dei ben due libri, e per di più di taglio poliziesco, usciti a breve distanza tra loro, negli ultimi mesi. Uno, LA MORTE DANZA IN SALITA – Ettore Schmitz e il caso Bottecchia, di Alessandro Mezzena Lona, edito da Simone Volpato, è un romanzo breve che ci fa trovare uno Svevo-Schmitz già anziano, fumatore pentito recidivo, malato immaginario quanto Zeno, in vacanza a Peonis, un paesino del Friuli, per fare moto, lavorare a un nuovo romanzo, respirare aria buona, dimagrire un po’ e – a Dio piacendo – smettere di fumare.
Non riuscirà in nemmeno uno dei suoi intenti, ma in compenso troverà la soluzione al mistero della morte, avvenuta sulle strade del luogo in situazioni non chiarite di un  ciclista, Ottavio Bottecchia, famoso trionfatore del tour (vicenda realmente accaduta). Servirà a poco, perché i probabili assassini, protetti dalle bande fasciste che cominciano a spadroneggiare nel paese, non saranno incriminati e anzi, forse, avranno un ruolo anche nella morte dello stesso Svevo, dovuta effettivamente a un misterioso incidente stradale avvenuto un anno dopo.
Ma le giornate di Svevo, che sta godendo i primi, tardivi successi letterari, sono inframezzate da molte birre, un piacevole ristorante del paesino carnico e le chiacchierate con don Dante, il parroco, e Casseri, il capitano dei carabinieri. Ed è il temperamento curioso di Svevo che fa emergere gli indizi, e apre lo scenario dei segreti del luogo: la falsa pista di un contadino che avrebbe lanciato un sasso contro il ciclista, le gelosie di un eroe della grande guerra che ha sposato una ragazza troppo bella, la presenza di bellimbusti del partito fascista che hanno amici potenti in città. E il cittadino Schmitz, con il suo carattere bonario e la sua innata propensione a occuparsi dei fatti che ha sotto gli occhi, è l’unico che riesce a suscitare la confidenza che svelerà il mistero.
Un po’ più defilato è il ruolo che ha Svevo nel romanzo di Deana Posru e Gianfranco Sherwood, L’AVVENTURA SEGRETA – Quando Italo Svevo chiese aiuto a Sherlock Holmes, MGS Press, perché i veri protagonisti, qui, sono il mitico detective inglese e il suo aiutante-biografo Watson. Svevo-Schmitz è a Londra su incarico della tirannica suocera, la proprietaria della famosa ditta di vernici marine Veneziani, che lo ha spedito a trattare l’apertura di una fabbrica in Inghilterra; qui si fa rubare per sbadataggine un prezioso codice cifrato necessario per comunicare in segreto con la casa madre. Per recuperarlo, si rivolge a Holmes. Ma il furto nasconde traffici e conflitti internazionali complicatissimi, e l’azione del racconto quindi si sposta a Trieste. Un giallo complesso, che si legge con gusto, e non ha niente da invidiare alla scrittura (peraltro non eccelsa) di Conan Doyle. 
Ma vedere Holmes e Watson all’opera nella Trieste della belle époque, centro di traffici, commerci spregiudicati, fermenti irredentistici e di ininterrotte trame spionistiche di tutte le  potenze europee è uno spettacolo. La città è descritta con grande efficacia, e Holmes naturalmente ci si ambienta benissimo, e trova subito il bandolo degli intrighi che ci sono dietro la faccenda della ditta Veneziani. Pedinamenti, corse col tram di Opcina, attentati, vari di navi, travestimenti, sequestri e fughe sono la materia prima che gli autori maneggiano con disinvoltura. Il racconto tiene e, come nel libro di Mezzena Lona, dietro l’invenzione c’è una ricerca rigorosa che dà plausibilità alla storia.
E Svevo? Certo, l’industriale-scrittore compare spesso, è disinvolto nel trovare un aiutante per i detective, conosce bene la città; ma il fascino del suo personaggio, in tutti i due libri, è che Svevo è rappresentato come la copia, l’alterego di Zeno Cosini. Troppo facile, si potrebbe dire. Ma il fatto è che le caratteristiche di Zeno sono in realtà connaturate alla maggior parte dei triestini. Scarsa propensione al lavoro, temperamento superficiale, languida tendenza a farsi trascinare da una bettola a un ristorante, a parlare volentieri di tutto e a sparlare di tutti. Ecco, Svevo ci ha regalato un personaggio emblematico, un archetipo ancora oggi attualissimo del comportamento dei suoi concittadini. Un personaggio che, da solo, senza bisogno di ripetere i contorni del protagonista della Coscienza, ci viene incontro come un vecchio amico, riempie le pagine e rende immediatamente percepibile l’atmosfera insieme decadente e vivacemente ventosa che Trieste ha ancora oggi.
Un’unica differenza: oggi i triestini sono tutti salutisti, passano le loro giornate a passeggiare, a fare sport, e a rosolarsi al sole sulla riviera di Barcola. Difficile, ai giorni nostri, sarebbe trovare un ipocondriaco di tale fattura, che non riesce a smettere di fumare. 


                                                                               Da "L'immaginazione" 

venerdì 1 maggio 2015

IL GIORNALISMO CULTURALE E LA CULTURA DIVERGENTE

C'era una volta la Cultura con la C maiuscola. Erano tempi in cui solo una ristretta élite rappresentava la parte di un paese che si esprimeva in pubblico, che aveva gli strumenti necessari per parlare, scrivere, fare arte e musica e, in definitiva, per determinare le scelte di una nazione. Anche nelle democrazie moderne, a lungo, c'è stata un'oligarchia della conoscenza, una piccola percentuale della popolazione destinata a detenere gli strumenti di trasmissione del sapere come del potere.
Nella seconda metà del '900 si è fatta strada una nuova definizione di cultura, per così dire con la c minuscola. E' quella che, invece di riferirsi soltanto alle zone di produzione creativa intellettuale ed artistica, si riferisce più ampiamente all'insieme di valori, di usi, di comportamenti, di tradizioni e di espressione estetica che sono patrimonio comune di un intero popolo, e non delle sole élites. Ha avuto inizio così un cambiamento che, allargando a tutta la popolazione di un paese la base produttiva di fenomeni culturali, produce la nuova identità di una nazione.
Qualche anno fa Henry Jenkins, in Cultura convergente (Apogeo, 2007), descriveva il rapporto interattivo tra vecchi e nuovi media come un processo che porta i diversi mezzi di comunicazione a fondersi tra loro e mette in comunicazione i due livelli di cultura di cui abbiamo parlato. Un processo che avrebbe, secondo l’autore, liberato nuove energie culturali e intellettuali, in particolare per la democratizzazione della produzione di informazione e sapere che si è aperta con il diffondersi dell’uso della rete.  
Questo nuovo modo di intendere la cultura ha naturalmente inciso sul giornalismo culturale. E avrebbe dovuto incidere anche sul giornalismo in generale e sulla comunicazione di massa nel suo insieme. Il passaggio da una comunicazione di massa, fatta però con criteri di élite, a una comunicazione veramente aperta a tutto il corpo sociale, avrebbe dovuto provvedere ciascuno di un bagaglio conoscitivo tale da rendere tutti preparati al compito di essere cittadini partecipi e consapevoli.
Cos’è accaduto, invece? C’è stato, per usare un termine medico, una sorta di effetto paradosso. La democratizzazione si è dimostrata illusoria perché, invece di aprire il rimescolamento e la compenetrazione di due universi poco permeabili, i cambiamenti e i nuovi media hanno fatto sì che la cultura alta si sia, per certi versi, ulteriormente isolata e la cultura bassa abbia avuto un’involuzione deteriore. La alta continua ad avere un suo spazio, è poco incline ad aprirsi a un pubblico non specializzato e agisce in un universo chiuso. Mentre la bassa si è ulteriormente adeguata al livello più corrivo della comunicazione commerciale, rinunciando a puntare all’apertura ai più del pensiero della comunità intellettuale, ma occupando in compenso buona parte dell’area una volta occupata dalla alta.
Le culture sono divergenti, come lo sono i mezzi di comunicazione. Da un lato la cultura di élite, sui supplementi di quotidiani, e alcuni dei blog più interni alla società culturale; dall’altra i media popolari e la rete, con una massa di interventi senza filtro, dove tutto si confonde, dove non esiste la mediazione dell’esperto autorevole, dove non c’è separazione tra il professionista e il mitomane, dove il flusso di commenti generici del lettore occasionale si fonde con la recensione del critico militante. Un frullato dove tutto è altrettanto, democraticamente, significativo e quindi, necessariamente, irrilevante. Perché la mancanza della mediazione non produce una convergenza tra le culture e i mezzi, ma anzi ne accentua la divergenza.
Qui, secondo me, è il nodo; e da qui, a mio avviso, parte una modificazione che, paradossalmente, cercando di democratizzare l’informazione culturale, la sta uccidendo.
Per concludere, tornando alla situazione attuale, penso che il giornalismo culturale sia una specializzazione in via di estinzione. Naturalmente rimangono isole felici, specie nei grandi quotidiani e nei loro supplementi (La lettura, Il domenicale del Sole, Tuttilibri, Alias ecc.), dove è ancora vitale e combattivo, con firme autorevoli e giornalisti impegnati, che apprezziamo e invidiamo; ma nei giornali minori, e soprattutto nel giornalismo radiotelevisivo, sempre più spesso le redazioni culturali vengono accorpate con le redazioni della società o dello spettacolo, riducendo e spesso eliminando lo spazio dedicato ad argomenti specificamente culturali, producendo redazioni meno specializzate e competenze più ampie ma più superficiali. La notizia curiosa, la spigolatura, il particolare divertente, il pettegolezzo culturale, la vita privata dei protagonisti della società letteraria sono quello che tende a determinare le scelte di chi confeziona i notiziari.
E’ un modello che privilegia la costruzione del personaggio, una sorta di star system della cultura, dove attorno ai divi dell’intellighenzia, quelli che appaiono in tv, si devono costruire delle storie, una narrazione. Al posto dell’analisi, della critica, dell’esposizione di contenuti, lo storytelling.
Né, a me pare, può essere la rete a sostituire quello che il giornalismo culturale ha significato fino a qualche anno fa. Da un lato perché in rete troviamo le pagine web dei giornali, fatte con lo stesso criterio della carta stampata, sia pure con più ritmo e con l’inserimento di filmati; e dall’altro perché in rete si trovano siti culturali – cito, per tutti, Minima & moralia  – che hanno contenuti e struttura assimilabili a quelli delle riviste su carta, e blog, anche curiosi, dove prevale l’intervento spontaneo di chi non troverebbe spazio altrove. Salvo rare eccezioni, la rete è effettivamente il luogo della massima libertà, dove fluisce quasi senza controlli e senza censure l’opinione di chiunque abbia voglia di esprimersi. Proprio per questo, però, non può essere il luogo dove si esercita il giornalismo culturale, dove chi ha autorevolezza e può diffondere aggiornamento e cultura svolge il suo ruolo, formativo e informativo.
Vi prevale quella che Lella Mazzoli ha definito una “comunicazione discorsiva”, un fluire di onesto chiacchiericcio, in un frullato di prodotti dell’ingegno in cui è difficile distinguere il grano dal loglio. Dove You tube non apre tanto la possibilità di avere notizie di prima mano quanto piuttosto il diffondersi di deliziosi filmati di gattini; dove Anobii non conforta il lettore con rigorosi ragionamenti sulla qualità dei libri in circolazione, ma ci informa sulle letture di singoli esibizionisti che vogliono farci conoscere le loro abitudini letterarie. Dove invece di avere ragionate recensioni abbiamo risentimenti di studenti frustrati che si sentono finalmente autorizzati a stroncare le letture dei classici raccomandate dai professori.
Eppure, io credo che il giornalismo culturale avrebbe ancora una funzione: quella di mettere più cultura in tutto il processo informativo, di fornire un servizio. Servizio è dare informazioni le più oneste possibile sugli avvenimenti, sui prodotti, sui dibattiti culturali; spiegare bene cosa c’è in una mostra, limiti e qualità, elementi di pregio e dettagli scadenti. Servizio è una recensione scritta da un critico che dica ai lettori cosa veramente pensa dei libri che legge; che metta in guardia il lettore che non ha la sua competenza dai successi ingiustificati e dagli scrittori sopravvalutati. Servizio è dare notizia del dibattito che si sviluppa nel paese sui temi più importanti, seri o lievi che siano, con onestà, senza cedere al sensazionalismo e alle interpretazioni forzate per produrre curiosità pruriginose. Servizio è mettere a disposizione del maggior numero di persone il maggior numero di informazioni che possano sviluppare l’interesse critico e la riflessione analitica della collettività.
Qualcuno dirà che, in un paese in cui gli scandali si susseguono incessantemente, l’amministrazione dello stato è in mano a conventicole di corrotti e il parlamento è popolato di indagati, non ha senso porsi il problema di come funziona l’informazione culturale. Personalmente, però, penso che i due campi non siano disgiunti, ma strettamente legati. E che se la nostra classe dirigente è impresentabile, è anche perché il giornalismo culturale è in crisi, e quindi la cultura media degli elettori resta modesta. Un paese dove non ci si preoccupa che le informazioni culturali circolino, raggiungano il maggior numero possibile di persone, escano dal circuito elitario della società delle lettere e dell’accademia, è un paese dove la democrazia stenta ad affermarsi. E’ quello che accade in Italia, e si vede.

Sintesi della relazione introduttiva al
Festival del giornalismo culturale di Urbino,

23 aprile 2015

mercoledì 18 marzo 2015

IL FUTURO DELLA SINISTRA
E LE ASSIMMETRIE DEL CAMBIAMENTO


“Pensare di poter difendere i diritti conquistati senza ricomporre e ampliare in modo chiaro e deciso l’area delle figure che si pretende di rappresentare è un’utopia con il fiato corto”. Credo questa frase contenga un po’ il succo dell’ultimo libro di Franco Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento, Laterza 2014. Perché è la conclusione di una breve ma densa e convincente indagine sulla condizione attuale della politica degli schieramenti progressisti; innanzitutto in Italia, ma non solo.
Cassano ripercorre le fasi dello sviluppo delle politiche progressiste nella seconda metà del secolo scorso. Ricorda come in quel periodo il progetto della sinistra  ha avuto il suo culmine e ha esercitato un’estesa egemonia politica e culturale in Italia; ma anche di come, dalla fine degli anni ’80, dalla caduta del Muro, sia entrato in crisi. Di come i conflitti di classe, pur presenti, si siano manifestati negli ultimi anni in modi e con aggregazioni del tutto diverse dal passato, incrociando altri problemi. Centrale, nella sua analisi, risulta il processo di finanziarizzazione, che ha reso l’economia “autoreferenziale e fittizia: l’azzardo più spericolato si è sostituito al rischio d’impresa”, in una nuova prospettiva, “piena di asimmetrie, conflitti e di insidie”. E nel processo di perdita di egemonia della sinistra gli agenti del cambiamento, che erano collettivi, sono diventati individuali. In questa prospettiva, per Cassano, il radicalismo di chi difende le conquiste del passato per i soli ceti che ancora (ma per quanto?) ne godono, come l’utopia di estendere universalmente i diritti della cittadinanza, abbattendo le frontiere nazionali, non possono che accentuare il declino dei partiti e dei movimenti di sinistra che, fino ad oggi, si sono riconosciuti in un solo blocco sociale. “Il nazionalismo ‘popolare’ alla Marine Le Pen è l’effetto perverso del giacobinismo”. Intanto, il capitale ha cumulato privilegi e rendite, ha fatto alleanze, ha isolato e diviso il vecchio avversario e ha fatto esplodere nuovi conflitti, acutizzando la contraddizione tra chi delle vecchie conquiste gode e chi ne è escluso. Dentro e fuori i confini delle singole nazioni.
Quali le prospettive? Per Cassano, “è necessario che la sinistra mantenga un’autonomia culturale (…) ma dev’essere cosa profondamente diversa dalla semplice difesa del passato: si è coerenti se si dice sempre la verità, anche e soprattutto quando questa è cambiata”. Se il quadro può sembrare apocalittico, a me pare invece sia una lucida analisi di quella che è  una strategia insieme possibile e indispensabile per ridare senso a un progetto che si riconosca ancora nella ricerca di maggiore giustizia sociale e uguali opportunità.
Riconosciute le conquiste che l’egemonia della sinistra ha comportato in Italia - dalle migliori condizioni di lavoro al diritto all’istruzione, dal diritto alla salute a una più equa distribuzione del reddito, dalla tutela delle diversità al nuovo diritto di famiglia  - bisogna pur accettare che, se negli ultimi anni il tradizionale elettorato della sinistra ha votato per Berlusconi o per la Lega, questo non è dovuto alla perfidia dell’elettorato, ma proprio al fatto che la sinistra non aveva più “il vento della storia” nelle sue vele. Che tutelare assieme il diritto alla casa degli italiani e degli emigrati non poteva non produrre conflitti, che la crescita esponenziale di lavori precari e mal retribuiti non poteva non mettere in crisi i criteri di rappresentanza sindacali, che la tutela dell’ambiente si sarebbe scontrata con l’auspicio dei cittadini di costruire la propria casa dove più lo desideravano, che la possibilità di delocalizzare il lavoro in paesi dove i salari erano più bassi avrebbe fatto tramontare qualsiasi internazionalismo sociale, e  via dicendo. Come dice Cassano, se non si ammette che le cose sono cambiate, il declino è inevitabile. Insieme, se non si immagina una platea più ampia di interessi che si coagulano intorno a un progetto politico compatibile, si rimane una minoranza pura ma impotente. E se si continua a pensare che il rispetto per le legittime aspirazioni personali di ognuno sia bieco individualismo, non si capisce nemmeno a cosa siano servite, le conquiste fatte finora. Non dovevano, appunto, liberare ognuno di noi, farci più autonomi? Certo, la solidarietà è necessaria. Ma la libertà dell’individuo era un obiettivo, non qualcosa da demonizzare.
Credo che una profonda revisione dei valori e delle strategie della sinistra sia in corso, e sia un processo sano e utile. E che non accettare che le prospettive sono cambiate, anche perché, a suo tempo, tante battaglie sono state vinte, sia un rischio terribile, che può portare solo all’isolamento e alla sconfitta.


Dall’”Immaginazione”, dicembre 2014