mercoledì 22 luglio 2015

IL RESISTIBILE AVVENTO DEL LIBROIDE

Derrick Storm, che la Cia chiama quando si tratta di fare indagini riservate e segretissime, di ritorno da una vacanza sulle Alpi, salva l’aereo su cui sta volando inerpicandosi, con le sue doti di rocciatore, sull’ala dell’aereo e riparando un inspiegabile guasto. Ma altri aerei hanno incontrato gli stessi problemi e sono precipitati, con importanti personalità a bordo. Storm indaga, viaggiando tra Monaco, Panama e l’Egitto, incontrando donne bellissime e terroristi fanatici con progetti diabolici di sottomettere il mondo con un’arma letale…
Questa la sostanza di Deadly Heat, di Richard Castle, Fazi editore, 2015. Un giallone pieno di ritmo, con tratti che ricordano il Fleming di 007 .
Certo, la scrittura è piuttosto piatta, con parecchie cadute di stile. Il libro, però, nasconde un piccolo mistero, che mi è stato segnalato dall’amico Giorgio Casadio. Se diamo un’occhiata alle bandelle, scopriamo che Castle è l’autore di numerosi bestseller, che il suo primo libro è stato pubblicato quando andava ancora al college e che ha meritato un premio per la letteratura del mistero. In quarta di copertina c’è la foto di un bel giovane, sotto la quale però compare non un nome, ma “American Broadcasting Companies, Inc”. Per essere sicuri di questa paternità industriale basta andare al copyright, dove troviamo la conferma, perché non è del signor Richard Castle, ma degli ABC Studios, la famosa industria televisiva. E in effetti Castle è il protagonista di una serie di telefilm gialli, della ABC, trasmessi anche in Italia, in cui è uno scrittore che lavora assieme a una detective (come i protagonisti del libro). La foto della quarta, infine, è quella dell’attore che impersona Castle nel telefilm, un certo Nathan Fillion.
Notizie confermate da Wikipedia, che allega la foto del solito attore belloccio, e ci racconta che alcuni dei libri di Castle sono degli pseudobiblion (cioè libri immaginari), che venivano citati nella prima serie del telefilm, e che sono stati scritti solo in seguito al successo del prodotto televisivo. Significativo infine che la serie televisiva, apparentemente ambientata a New York, viene girata a Los Angeles. Un gioco di specchi, una serie di indicazioni che si rimandano l’una all’altra, nomi di personaggi che coprono altri personaggi, senza darci spiegazioni chiare.
Se andiamo a vedere come Amazon pubblicizza il libro, poi, scopriamo che “Malgrado sia il personaggio di una fiction, Richard Castle pubblica e promuove i suoi libri nella vita reale”.
In rete, però, c’è anche un sito della serie italiana dove, a un ammiratore che chiede: “Chi scrive i libri di Richard Castle?”, si risponde: “Ovviamente un’altra persona, dato che Castle è un personaggio immaginario”. Dunque, il problema è che, contrariamente a quanto vorrebbe farci credere il risvolto del libro, Castle-scrittore non esiste, e nessuno ha la paternità di questi libri. Nel sito, invece, ci sono commenti entusiastici di lettori convinti che l’autore sia l’attore Fillion, o che Castle esista davvero. Solo un lettore, confuso, alla fine si chiede: “Ma chi ca… li scrive, questi libri?”. 
Possiamo immaginare che i libri siano, semplicemente, un prodotto industriale, come quello cinematografico: uno scrive un soggetto, altri scrivono la sceneggiatura, un revisore dà un po’ di unitarietà al racconto. Una catena di montaggio che, sia pure con qualche meccanicità, funziona.   
Ora, non mi pare ci sia niente di immorale a produrre libri, pseudolibri o libroidi, non so come chiamarli, con un metodo industriale. Lo si fa da sempre col cinema e con la tv; perché non farlo coi romanzi? Certo, bisognerebbe almeno dichiararlo, ma non è un processo produttivo vietato. Però, come si fa a produrre un buon romanzo con tanti autori? Che stile avrà mai? Che personalità trasparirà da quelle pagine? Potrà contenere le ansie, i dubbi, i problemi del mondo che descrive? E considerato quanto si è lottato per superare la frammentazione tayloristica del lavoro, possibile che adesso la si applichi alla produzione intellettuale? Perché dobbiamo abbassare il libro allo stesso livello di un prodotto metalmeccanico? Che se ne trae?

A meno che, dopo questo passo verso l’industrializzazione della scrittura, il destino della produzione del libro, come quello dell’automobile, non sia quello di passare dalla catena di montaggio alla automazione, alla linea robotizzata. Ecco, forse la ABC ci sta già pensando. Perché non far produrre, in serie, a un buon computer, dozzine di romanzi che prendono spunto dalle serie televisive? Romanzi scritti dal tenente Colombo, dall’ispettore Barnaby , dal commissario Montalbano? Be’, non vedo l’ora.
Sono in ritardo, terribilmente in ritardo.
Credevo che fosse tempo di superare il bicameralismo,
e non mi ero accorto invece che è il senato
che ci ha salvati finora dall’avvento di una dittatura.


Poiché se ne parla da anni, mi ero illuso che ci fosse una convergenza di opinioni sull’opportunità di superare il bicameralismo, in Italia. C’è stata invece una levata di scudi di fronte al progetto di riforma costituzionale che prevede un senato di soli 100 membri, non elettivo, con un ruolo limitato e soprattutto senza il potere di dare o togliere la fiducia al governo. Certo, a me era parsa una riforma timida: mi sarebbe parso molto più sensato eliminarlo definitivamente, il senato, limitandosi a chiamare qualche rappresentante di comuni e regioni ad eleggere il Capo dello stato e le altre cariche di rilevanza nazionale.
Invece vari commentatori, e soprattutto Eugenio Scalfari, mi hanno fatto capire che sarebbe un errore. In particolare il 19 luglio, nella sua “omelia” domenicale su Repubblica, Scalfari ci ha ricordato che il senato ha un essenziale ruolo di garanzia e di contrappeso alle altre istituzioni dello stato, e soprattutto che, nel novembre del 2011, se non ci fosse stato il voto contrario del senato, non saremmo mai riusciti a liberarci di Berlusconi.     
Il giorno dopo Scalfari ha dovuto rettificare, ricordando che non è stato il senato, ma la camera a sfiduciare nel 2011 Berlusconi. Niente di male: una piccola svista, onestamente e tempestivamente corretta dal Nostro. Si potrebbe persino argomentare che l’importante non è quale sia stato, dei due rami del parlamento, a sfiduciare il governo, ma che i due rami abbiano ruoli, meccanismi elettivi ed età eleggibile diversi, e quindi svolgano l’uno il ruolo del controllore di ciò che fa l’altro. Il fatto è che Berlusconi era altrettanto forte nelle due camere, ed è stato il venir meno dei voti della Lega, e non il ruolo di contropotere del senato a farlo cadere.
Se questo è vero, tutta l’argomentazione perde senso. Anche se, per il lettore che non ricordasse il meccanismo argomentativo, la precisazione del giorno dopo non modificherebbe quanto letto il giorno prima, a me sembra che Scalfari avrebbe dovuto ricordare che questo dettaglio cambiava qualcosa. Anzi, cambiava tutto, poiché l’argomentazione sull’essenziale ruolo del senato nella difesa della democrazia in Italia sembrava reggersi proprio sull’occasione nella quale aveva sollevato il paese dal pesante giogo berlusconiano. Il che non è.
A me pare che l’occasione meriti una riflessione. Perché da più (ed eterogenee) parti si sostiene che l’eliminazione del senato metterebbe in pericolo la sopravvivenza della democrazia? Forse che il bicameralismo ci ha salvato, negli ultimi vent’anni, dall’esistenza di un drammatico conflitto di interessi, dall’abnorme concentrazione di potere editoriale nelle mani del presidente del consiglio (tutte le televisioni generaliste e alcune importanti testate nazionali sono state sotto il controllo di Berlusconi per due decenni, e in buona parte lo sono ancora), dal varo di una legge elettorale che gli stessi estensori definivano “una porcata”, per non citare che le più clamorose violazioni delle più elementari norme della vita democratica del paese. Cosa faceva l’indispensabile senato, mentre il paese andava a picco e ci rendevamo ridicoli davanti al mondo intero? Niente, perché era una fotocopia della camera dei deputati, e lo sarebbe di nuovo se passassero le obiezioni di Scalfari, della sinistra Dem, di variegate parti della destra e di altri partitini assortiti.
C’è qualcosa invece che non sarebbe accaduto, se nella storia repubblicana non fosse esistito il senato. Per esempio, il palleggio tra le due camere di ogni legge che ledesse qualche interesse personale o di categoria che un sia pur piccolo spicchio parlamentare rappresentava. O l’infinito rimpinzarsi, nel loro andirivieni, delle leggi finanziarie (o come si vogliano chiamare) di emendamenti, aggiunte, rifiniture destinate a premiare più o meno significativi interessi locali, di parte, di corporazioni, di correnti di partito, di singoli parlamentari. Non sarebbe accaduto, forse, che semplici interventi legislativi restassero lettera morta, senza decreti attuativi, perché incontravano l’opposizione di minime parti di una delle camere. O che il pletorico numero di parlamentari, i loro uffici, i loro portaborse, l’enorme apparato burocratico che le due istituzioni si sono date, il tutto condito con stipendi fuori misura, benefit strepitosi, Tfr precoci, e pensioni e vitalizi di entità ingiustificate producessero una giustificata ondata di rifiuto della politica, dei partiti e delle istituzioni, e l’insorgere di movimenti di protesta che rendono difficile l’amministrazione stessa della nazione.
Vogliamo aggiungere che l’esistenza di quasi mille parlamentari – senza distinzione di schieramento, purtroppo – rappresenta uno stimolo allo sviluppo della propensione italiana al clientelismo, alla raccomandazione, al nepotismo, alla tendenza di trovare il modo di farla franca malgrado accertate responsabilità e quindi, per dirla tutta, un sostegno per la tendenza all’illegalità di massa che rende così difficile organizzare l’Italia come un paese moderno.   
Un’ultima cosa: si dice che un senato non eletto direttamente dai cittadini ma nominato dagli enti locali sarebbe vittima della corruzione e dell’inefficienza che caratterizza comuni e regioni. Curioso ragionamento. Forse che, quando votiamo per il parlamento, siamo onesti e oculati, mentre quando votiamo per la regione siamo corrotti e clientelari? Io temo che noi italiani votiamo sempre allo stesso modo. E il fatto – se accade - che nelle nostre scelte politiche prevalgano interessi personali invece che senso dello stato rispecchia purtroppo una cultura (o incultura) diffusa, che caratterizza non solo il ceto politico, ma l’intera società civile.
Ritornando alla domanda posta prima: perché allora un così vasto schieramento cerca di bloccare l’eliminazione del senato, visto che, così com’è, produce più guai che vantaggi? Temo – ma forse sono troppo pessimista - che nei partiti ci siano forti spinte a mantenere alto il numero dei parlamentari perché sono posti di lavoro, tra gli eletti e il largo indotto, che aiutano la loro stessa sopravvivenza. Temo anche che la nuova legge elettorale, assieme alla revisione costituzionale, faccia sì che alcuni, nelle forze sopravvissute alla prima e alla seconda repubblica, rimpiangano il meccanismo di alleanze e di consociazioni che permetteva anche alle forze minori e all’opposizione di avere un certo potere nel processo decisionale del parlamento. Temo infine che, magari in buona fede, ci sia una vasta parte di opinione pubblica che ha nostalgia di un ordine ormai tramontato e di un parlamento dove il dibattito era sempre ampio, aperto e democratico, ma dove nessuna forza politica aveva la forza di imporre nessun vero cambiamento, senza sottostare a piccoli e grandi ricatti delle altre.

Per concludere, può darsi che qualche rischio, ad eliminare il senato, lo si corra, non lo nego. Anche se ad ogni riforma sbagliata si può porre rimedio. Ma a me pare che il rischio più grave, in Italia, sia quello di continuare a non cambiare niente, e di farsi fermare dai distinguo e dagli allarmismi di una classe politica che non è riuscita a eliminare una sola delle storture che affliggono il paese. E non c’è niente di peggio di chi viaggia sempre con la testa rivolta all’indietro. 

venerdì 10 luglio 2015


IL PORNOLIBRO

Lo so, sono in ritardo, come al solito, terribilmente in ritardo.
Non mi ero accorto che il libro, fino a ieri consumo di un’élite intellettuale,
è improvvisamente diventato merce di consumo popolare. Almeno come simbolo…

Le ultime statistiche dicono che in Italia il numero di “lettori di almeno un libro all’anno” - curiosa categoria che, almeno su base demoscopica, dovrebbe farci risultare un popolo vagamente alfabetizzato – è in diminuzione. Personalmente la cosa non mi stupisce: non si tratta di lettori, ma di acquirenti casuali di un soprammobile da esibire sul tavolino del salotto. Che in tempi di crisi si risparmi su un cosa inutile come i soprammobili, non dovrebbe stupire nessuno. Quello che mi stupisce, invece, è che di alcuni di questi libri si possa continuare a fare pubblica esibizione come si trattasse di letteratura e non di qualcosa che ha a che fare con inconfessabili vizi privati, e cioè di bibliopornografia.
Una precisazione. A cosa ci riferiamo quando parliamo di pornografia? Per il Treccani, “Trattazione o rappresentazione di oggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore”. Insomma, il porno è un modo di rappresentare le cose in modo tale da dare la sensazione di partecipare a qualcosa di invidiabile ma difficilmente realizzabile (partecipare ad atti di sesso sfrenato, nel caso della pornografia sessuale), senza che invece se ne abbia avuto in nessun modo la capacità, il coraggio, o forse nemmeno la volontà.
Ora,  perché dovremmo limitare il concetto di pornografia soltanto all’erotismo? Come il mondo è pieno di seduttori a parole, i salotti sono pieni di madames Verdurin, di lettori velleitari, che poco sanno di lettura e di libri, ma vorrebbero tanto averne familiarità. Pensiamo un momento a cosa significherebbe lo stesso tipo di illusoria partecipazione ad atti altrettanto poco diffusi dell’erotismo sfrenato, come per esempio un rapporto di assidua frequentazione con la lettura. Ne verrebbe fuori una pornografia del libro, una bibliopornografia, una visione edulcorata e del tutto artificiosa, come nel caso della pornografia sessuale, della lettura. Né stupisce che di questa forma di godimento illusorio si siano sviluppati interi filoni, perché in fondo vantarsi della dimestichezza col libro, per qualcuno, è un po’ come per il macho latino vantarsi delle sue conquiste.
Veniamo al sodo. Solidamente in testa alle classifiche dei libri più venduti. Dimmi che credi al destino, di Luca Bianchini, Mondadori, è un accogliente polpettone sentimentale, attraversato dallo spleen di una gioventù in preda a una sfiga insuperabile, io direi metafisica, e a una tendenza alla transumanza internazionale, che ha avuto numerosi precedenti in storie di giovani che vagano per l’Europa; e in questo caso di giovani italiani trapiantati senza particolare motivi a Londra si tratta. Tra le avventure di Ornella, una ragazza un po’ sventata, della sua commessa Clara, preoccupata soprattutto di  curare il suo gatto, di un paio di sfigatoni di contorno e di un napoletano allegro e spiantato di sostegno, la vicenda scorre felicemente e il libro si lascia leggere senza troppi problemi. Un clima un po’ a metà tra i Celestini di Benni e la Belleville di Pennac. Cosa ci porta dunque alla bibliopornografia? Il fatto che Ornella è una libraia, e che tutto si svolge attorno alla sua libreria (italiana) a Londra. Bello, confortevole, illuminante: i libri fanno pensare, aiutano a vivere ecc.
Ma è proprio così? Neanche per sogno. Perché di libri, in questo romanzo, non si parla mai. Sì, si dice che “Diego [il napoletano, n.d.r.] non avrebbe mai immaginato che i romanzi potessero davvero cambiare un po’ la vita”. Ma esempi, niente. E succede che Clara si lanci nell’affermare “C’è sempre l’istante in cui un libro ti chiama”; ma a parte che vorrei sapere qual è, questo istante, ancora una volta sono affermazioni senza riferimenti bibliografici. C’è, è vero, un momento di grande felicità critica in cui Diego consiglia un libro “Perché parlava di Napoli e non era scritto da Erri De Luca”, ma è un esempio isolato. Siamo in una libreria, ma non si parla di libri: non del loro contenuto, non dei loro protagonisti, non delle illuminanti avventure e dei drammi descritti dai classici che dovrebbero avvicinarci al perché della vita. Niente. Solo amorucci e sfiga giovanile.
La libreria come luogo geometrico delle emozioni, delle passioni, degli svelamenti. Del resto altri casi non mancano: Niall Williams, in Storia della pioggia, Neri Pozza, racconta di una ragazza che è confinata a letto, ma sopravvive perché ha tanti libri intorno. E avanti con l’Assassinio in libreria, La libreria degli amori inattesi, Il segreto della libreria sempre aperta e dalla affascinante Libraia dai capelli rossi.
Un ultimo, illuminante esempio. L’apprezzato regista David Cronenberg ha dato alle stampe un romanzo, Divorati, pubblicato in Italia da Bompiani, dove troviamo, all’undicesima riga della prima pagina del testo, questa frase: “Sentiva l’odore dei libri stipati negli scaffali alle loro spalle, avvertiva il feroce calore intellettuale che emanavano”. Sic, si sarebbe scritto un tempo, in nota. Ma oggi val la pena riflettere. Il più andante romanzo pornografico non avrebbe potuto fare di meglio. In fondo se si scrivesse: “Sentiva l’odore dei sessi che si erano uniti nell’alcova alle loro spalle, avvertiva il feroce calore erotico che emanavano”, non si sarebbe discostato che di pochi gradi concettuali da quello che scrive Cronenberg. Il lettore che ne avesse la propensione, è autorizzato alla masturbazione intellettuale quanto il lettore di un sano libro porno è invitato a praticare l’autoerotismo dalla dettagliata descrizione di un atto sessuale.

E’ un problema? E’ una visione snobistica, francofortese, della lettura e della cultura popolare? Spero di no. Perché non c’è niente di male, in definitiva: l’importante è che si legga davvero. E la bibliopornografia ha ancora molto da dirci.