domenica 31 luglio 2016

          MARKARIS: GUARDARE ALLA GRECIA PER CAPIRE L’ITALIA

La caratteristica più originale dell’attempato commissario ateniese Costas Xarìtos, il protagonista dei romanzi di Petros Markaris, è di essere un uomo del Novecento, e di non avere né interessi né informazioni  culturali. L’unica lettura di cui si diletti è quella dei dizionari. Ne possiede alcuni e la sera, prima di dormire, si diletta ad aprirne uno e a leggere la definizione di una parola che non conosce. Da queste letture il commissario a volte trae ispirazione per cogliere l’elemento che gli permette di risolvere un caso. Ricordo un romanzo in cui Xarìtos si imbatte nel termine “ossimoro”, ne studia il significato, e improvvisamente capisce che, nell’indagine che sta compiendo, c’è la compresenza  contraddittoria di alcuni elementi, un ossimoro appunto, che però spiega tutto.
    In L’assassinio di un immortale, raccolta di racconti pubblicata dalla Nave di Teseo, troviamo storie diverse, ambientazioni disparate, intrecci complessi, con sullo sfondo i grandi problemi dei conflitti storici tra i popoli e la terribile crisi greca. Solo due dei racconti hanno come protagonista Xarìtos, ma sono di grande efficacia. Anche perché il commissario si trova a dover indagare in mondi per lui ignoti, la società letteraria e il mondo del cinema, e Markaris si diverte a farci capire quanto possano essere grotteschi i vizi e le mediocri ambizioni di chi vive nella speranza del successo intellettuale.
In un racconto, l’assassino se la prende con  i candidati all’Accademia greca, gli immortali, e Xarìtos si trova di fronte a un cadavere a lui sconosciuto. Il suo assistente gli dice trattarsi di un famoso scrittore e lui chiede come l’ha scoperto: “Su Wikipedia”, risponde arguto il giovane. “Se gli chiedo informazioni su cosa sia Wikipedia rischio di giocarmi tutta la mia autorevolezza”, dice tra sé Xarìtos.
Le vittime, come i sospettati dei delitti, sono scrittori affermati ma, scavando nelle loro vite, la polizia trova solo presunzione e arroganza, e dietro un’apparente bonomia, gelosie e violenti risentimenti. Delizioso il ritratto del romanziere pieno di sé, che scrive a penna nei caffè, dove ha un tavolo riservato e i camerieri lo conoscono e sanno i suoi gusti; esilarante l’autore che gira con un cappellaccio in casa, e disprezza tutti i colleghi; un cammeo quello dell’editrice, che definisce i candidati all’Accademia degni di Harmony. Qui Xarìtos finalmente è a suo agio, perché sua moglie gli Harmony li divora, e si sente preparato.
Non va molto meglio nel mondo del cinema, perché anche qui i protagonisti si credono dei padreterni, ma il mercato greco è modesto e tutto si risolve in produzioni sostenute dallo stato, che poco incassano al botteghino. Ma  quando un regista ha il sostegno del Centro cinematografico greco, tratta i collaboratori come servitori, spadroneggia e non accetta suggerimenti da nessuno. Che qualcuno finisca per ammazzarlo a colpi di travertino non stupisce nessuno.
C’è, in questi racconti di Markaris, l’ironia di chi gli intellettuali li conosce bene. Sa quanto possano gonfiarsi di autostima e chiudersi in se stessi, e non abbiano il senso dei limiti del proprio valore. Il confronto con il semplice e intuitivo commissario è amaro e induce a poco entusiasmanti paragoni con il nostro paese.
La propensione dell’intellighentsia a organizzarsi in circoli che hanno la funzione di promuovere solo chi ne fa parte, escludendo dalle preziose collaborazioni – al cinema, alle riviste,  ai mezzi di comunicazione - chi non è funzionale alla conventicola, è una delle caratteristiche più deprimenti del mondo della cultura italiana. Pochi gli scambi tra autori, difficile che ci sia rispetto e interesse per il lavoro e le idee di chi non fa parte del “giro” giusto. Raro che si dimostri interesse per autori emergenti. E, ancora, divaricaz[UW1] ione per i legami con le forze politiche, i gruppi editoriali, le alleanze che determinano la distribuzione dei premi più prestigiosi e persino le diverse provenienze regionali.
Markaris si limita a descrivere una società culturale molto simile alla nostra: autoriferita, provinciale e senza consapevolezza né del proprio valore né dei propri compiti. Il senso ultimo di quel disegno è che chi ha il privilegio di avere un ruolo tra chi può trasmettere idee, narrazioni, fascinazioni letterarie e  visuali, semplicemente non ha il senso ultimo di quello che è il lavoro più interessante che un uomo possa compiere.
Non è un caso che uno dei protagonisti di Markaris concluda: “Chi, in questo paese, prova ad avere successo senza raccomandazioni e maneggi è un potenziale assassino”. Un po’ esagerato, per l’Italia; ma lo schema è  quello. Pure, sarebbe bello se gli intellettuali fossero meno individualisti e avessero interesse per il mondo che li circonda. Ma forse è difficile porre rimedio.

                                                          Da "L'Immaginazione", settembre 2016




                                             Tra tecno entusiasti e tardoumanisti

Ma cos’è la disintermediazione? “L’eliminazione di intermediari dalla catena distributiva di beni o servizi”, recita il dizionario. Dunque un fenomeno di eliminazione di passaggi intermedi tra chi produce e chi consuma. Il fatto che oggi si usi spesso il termine a proposito dei nuovi media, però, non ha a che fare solo con merci, musica, video e giochi, ma anche con informazioni, idee e giudizi. Con la conoscenza, il sapere, in parole povere. E che, con l’uso del web, si possa comprare proficuamente tutto senza mediatori è vero; ma se parliamo di conoscenza? Della disintermediazione negli scambi culturali si discute e si sa poco; ed è quindi particolarmente prezioso l’ultimo libro di Giorgio Zanchini, Leggere, cosa e come, sottotitolo: Il giornalismo e l’informazione culturale nell’era della rete, Donzelli editore, che a questo problema è dedicato.
Anticipiamo che, dopo una accurata descrizione, ricchissima di dati, di come avvengono oggi gli scambi culturali, Zanchini conclude che non abbiamo né il tempo né la preparazione per leggere tutto quanto la rete ci propone, e che quindi di mediazione c’è ancora bisogno. E che “i nostri saperi sono troppo incerti per affrontare da soli (…) l’oceano di impulsi, informazioni, opinioni che la rete ci squaderna davanti”. Aggiunge però che i meccanismi stessi della rete hanno messo in discussione i mediatori tradizionali: giornalisti, intellettuali, critici. E che nuove forme di intermediazione si sovrappongono a quelle tradizionali, per le quali gli onnivori, i consumatori indefessi del web, hanno sospetto se non vero e proprio rifiuto. La crisi di credibilità dei mediatori culturali tradizionali è certo in parte giustificata. La società letteraria che domina i supplementi culturali della carta stampata è un mondo spesso elitario, autoriferito, viziato da condizionamenti interni, che parla a una platea ristretta. In rete, invece, proliferano blog di critica letteraria, di gruppi di lettura, di giudizi spontanei. Quello che una volta passava attraverso il passaparola verbale oggi passa attraverso i luoghi deputati in rete, i “media partecipativi”. E questo ha anche ridotto il principio di autorità, rivoluzionato i criteri del giudizio, erodendo la separazione tra alto e basso, cancellando i confini tra impegno ed evasione.
Chi sono, dunque, i nuovi mediatori? Il pubblico,la collettività, i consumatori, dirà chi è convinto delle caratteristiche di indiscussa democraticità della rete. Sono Google, Amazon, Facebook e Microsoft, ma soprattutto il mercato, dirà invece chi, come Asor Rosa, è convinto che questo sia il tramonto della modernità. E il rifiuto della mediazione produrrà una cultura più libera e più diffusa, una nuova intelligenza collettiva, o favorirà la nascita di una generazione di semianalfabeti, sempre connessi ma titolari di un sapere sconnesso, che non sanno leggere un libro ma, poiché passano ore davanti ai dispositivi elettronici, sono convinti di essere bene informati sul mondo in cui vivono?
Cinquantadue anni fa Umberto Eco, affrontando il dibattito aperto dallo sviluppo della cultura di massa, ha coniato la definizione di apocalittici e integrati per identificare chi di quella rivoluzione era un sostenitore acritico e chi la riteneva un fattore di drammatico declino. E sosteneva che solo chi studia con serietà i fenomeni  della comunicazione può descriverne la qualità, perché ogni novità comporta cambiamenti, anche negativi, ma non può essere né rifiutata né arrestata. Zanchini riparametra a oggi quella divisione e parla di “tecnoentusiasti” e “tardoumanisti”, due categorie altrettanto estremizzanti e poco utili a definire il cambiamento in atto, che finiscono per accentuare la separazione storica tra consumatori e professionisti della cultura.
Sarebbe bello e auspicabile che quei due mondi si integrassero, ma la sensazione è che, invece, si guardino “con sospetto, contrapposta altezzosità o disinteresse”.
Innegabile, in definitiva, che la rete sia anche uno spazio di riappropriazione dei contenuti da parte dei fruitori, un’occasione per recuperare autonomia di giudizio e capacità di analisi. Ma vero anche che bisogna essere in grado di verificare le fonti, distinguere le semplici opinioni dalle analisi ragionate. E che, se i lettori oggi non sono più soltanto passivi, la conoscenza, la competenza, lo studio, la passione di chi sui testi ha lavorato non per questo sono diventati inutili, né la funzione critica può essere considerata soltanto l’elitaria pretesa di imporre un sapere oligarchico. “Il mediatore resta a mio avviso una figura decisiva per un’appropriazione controllata delle forme culturali altrui”, conclude Zanchini, ricordando che “C’è un briciolo di umiltà nell’affidarsi ai mediatori”. E, aggiungo io, un briciolo di arroganza nel rifiutarli in blocco.