lunedì 22 maggio 2017

IPOCRISIA E SOLITUDINE

C’è chi ha pensato bene di dire che Amélie Nohomb ha usato 120 pagine per dire quello che Perrault aveva detto in poche righe. E’ stata Michela Murgia, non ne nascondiamo il nome, e ha usato l’isola felice in cui, su Raitre, rara avis, Augias parla di libri, per… sconsigliare la lettura di un libro. Mirabile interpretazione del compito del servizio pubblico radiotelevisivo: sconsigliare la lettura di libri di qualità.
Naturalmente ognuno ha diritto di non vedere al di là del suo naso. Ma è difficile immaginare che chi ha aperto Riccardin del ciuffo (Voland, 2017, 119 pp., 15 euro) non abbia capito che, rispetto a una riscrittura della fiaba omonima, questo libro affronta una storia e dei nodi problematici che non solo vanno al di là di quanto voleva segnalare la morale della favola di Perrault, ma che scava in profondità in alcuni dei temi più dolorosi e inquietanti del presente.
E’ vero che la storia, come quella della fiaba, è quella di un ragazzo bruttissimo e intelligentissimo e di una ragazza bellissima e (erroneamente) considerata stupidissima.  Ma c’è molto di più. C’è un’ironia profonda che segna tutto il racconto, e che toglie ogni venatura dolciastra al tessuto fiabesco; e c’è una fantasia libera e surreale. Il padre di Deodato fa il cuoco delle ballerine dell’Opéra e la madre “ha malanni di ottima qualità nel alloro gentile mitezza”. Quando nasce l’intelligentissimo figlio e cercano di insegnargli a dire “mamma”, lui si chiede se non lo prendano per un imbecille. Quando la mamma si augura che sappia dire una frase intera, a pochi mesi, lui si esprime con formalità: “Stai proprio bene con questo vestito”. Diventerà un affermato ornitologo.
Anche Althea, bellissima e silenziosa, ha difficoltà ad affermarsi. Per fortuna i genitori la affidano a una nonna originalissima con una passione per i gioielli, considerati un complemento della vita della donna, che lei eredita e che ne farà una fortunata indossatrice per i migliori gioiellieri.
Ma essere bellissimi può essere un problema come essere bruttissimi. I due protagonisti della storia incontrano pari difficoltà a integrarsi. Lui arriva a pensare che se la natura ha deciso di rifornirlo di ogni orrore si tratta di un progetto che non va contrariato. Lei, che non è stupida come tutti vorrebbero credere, ha semplicemente una vocazione alla contemplazione che le permette di distrarsi da quello che la circonda.
Che i due si debbano incontrare non è solo una funzione del racconto fiabesco, ma una necessità per due personalità fondamentalmente non banali e inadatte ad accettare la ovvietà del buon senso comune. Che questo avvenga mentre aspettano di partecipare a un talk show televisivo è lo strumento col quale Amélie Nothomb allunga il suo sarcasmo sui processi produttivi della falsa rappresentazione del reale in tv. Costretti ad attese assurde, gli ospiti delle trasmissioni aspettano isolati in modo che il loro potenziale isterico si esasperi  e la loro performance si avvicini al crollo nervoso. Ma i nostri protagonisti ne usciranno indenni e innamorati.  
La morale di Perrault è che è bello ciò che piace, e che ha spirito chi parla al nostro cuore. La morale di Amélie, molto più complessa, è che non essere ipocriti spesso comporta la solitudine. Che anche la bruttezza può essere un progetto da portare a compimento, e che la contemplazione silenziosa può essere un talento. Ma che la libertà, la capacità di scegliere autonomamente la propria strada e i propri valori, hanno sempre un costo. 


Da "L'Indice", maggio 2017

Nessun commento:

Posta un commento