martedì 23 maggio 2017

La resistibile ascesa del priapismo letterario

“A forza di stare a contatto con i boschi e i sassi, avevano contratto il vizio del silenzio”. “Continuavano (…) a inabissarsi in quella voragine di abeti e di sterpi senza sapere come fare a trovare un biliardo, un bar aperto, a far accadere qualcosa dentro quel silenzio”. Mi ero annotato qualche frase di Marina Bellezza, il romanzo della Avallone uscito da Rizzoli qualche anno fa, perché mi era sembrato che la costruzione faticosa, lo stile, che voleva essere originale e suggestivo a tutti i costi, meritasse una riflessione. Ne ho incontrati altri, in questi anni, di testi che usavano una lingua pesante, troppo cerebrale per essere piacevole, articolata in espressioni volutamente arbitrarie, che piegavano la lingua in un contorcimento stridente e inutilmente fantasioso. Ma torno ancora alla Avallone: “Il buio si agitava nel vento, tra le ripe, tra i boschi, come una creatura viva”; il buio che si agita? Come una creatura viva? Mah. E quando i giovani protagonisti investono un cervo con la macchina: “Fu lo schianto feroce di un corpo fatto di lamiere contro un altro corpo ancora più duro”. Il cervo più duro della macchina? Difficile crederci. Sarà stata la licenza poetica. Ma più avanti non andava meglio: “Conosceva il linguaggio delle bestie, glielo aveva insegnato suo nonno da bambino. Sapeva che il linguaggio, senza parole, arriva a coincidere con la radice nuda delle cose”. Mamma mia.
Mi è tornato in mente questo filone di ricerca stilistica, oggi, prendendo in mano La compagnia delle anime finte, di Wanda Marasco, Neri Pozza, adesso candidato allo Strega. L’incipit suona così: “Si chiamava Vincenzina Umbriello e aveva portato questo nome come un boato nella casa sul vico Unghiato…”. Poco più avanti leggo: “il crollo generalizzato del panico sopra la carne con cui ha vissuto…”; e ancora: “i capelli impigliati a un perfetto silenzio…”; e più avanti: “una lampada immaginatrice”. Una lampada che immagina? E un nome portato come un boato? E come la mettiamo con il crollo del panico? E soprattutto i capelli che si impigliano al silenzio (al, non nel) sono veramente impressionanti. E mi sono detto: ma è come la Avallone, con il buio che si agita. E’ la stessa sintomatologia.
E ho pensato che la autrici, afflitte dallo stesso morbo, si devono esser congratulate con se stesse: che intensità, che coinvolgimento emotivo, che stile inventivo e potente. Mentre a me sembra soprattutto che usino una scrittura pesante, barocca, artificiosa, gonfia; direi erettile. Uno stile fortemente involuto, che sembra ideato apposta per nascondere un certo vuoto di idee e l’esilità degli intrecci, personaggi di poco spessore in una trama poco plausibile.
Una sorta di priapismo letterario. Sia ben chiaro, qui son due scrittrici per caso, non è un problema di genere: ne sono afflitti scrittori e scrittrici nella stessa misura. Un gonfiore stilistico che vuole dare al lettore la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di ardito e di unico; una prepotente assunzione del diritto di usare il dizionario stocasticamente, per ottenere il massimo stupore nel fruitore.
Certo, si potrebbe sostenere che Gadda faceva lo stesso, che la lingua la inventava anche lui, che piegava alle sue esigenze sintassi e terminologia. Ma innanzitutto era Gadda, e poi lo faceva con maestria inimitabile. Ma soprattutto con uno stile che aveva una sua coerenza interna. Oggi, invece, e non solo per le autrici qui citate, sembra ci sia una rincorsa a épater les bourgeois, ad avvolgerci in un vocabolario che si vorrebbe immaginifico, a sbalordirci con gli effetti speciali. 
Cosa sarà successo? Probabilmente il priapismo letterario nasconde carenza di maturazione personale, mancata metabolizzazione della complessità del carattere degli uomini, assenza della capacità di trasfigurazione narrativa dell’esperienza. Ma tutto questo, da solo, non produce lo stile rococò che si manifesta, ogni tanto, ai nostri giorni.

A ripensarci, forse, la causa di tutto si può intravvedere in uno dei più terribili accidenti che si sono abbattuti sui giovani del nostro tempo: il moltiplicarsi delle scuole di scrittura creativa. Non ne so molto, ma temo siano ambienti nei quali si insegna a costruire uno stile molto personale e peculiare, che distingua l’aspirante scrittore dalla piatta lingua che usano quelli che hanno qualcosa da dire e non si arrovellano nel tentativo di trasformarsi in novelli Joyce. Scuole che dovrebbero distribuire gusto e conoscenze, ma che rischiano di facilitare la diffusione di un morbo preoccupante, come tutti i priapismi. Ci vorranno vaccini, interventi chirurgici, terapie complesse; ma speriamo che, nel tempo, sia possibile debellare la malattia.   

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