domenica 2 dicembre 2018



MA I CRITICI GUARDANO MAI AL PASSATO?

Ma sarà poi vero che i romanzi italiani, oggi, sono tanto peggio di quelli di cinquant’anni fa? Non è la prima volta che Berardinelli si interroga sulla qualità della produzione letteraria di oggi, e si risponde che forse ha ragione Giorgo Ficara nel sostenere che si è perso il contatto con la grande tradizione italiana (l’Avvenire, 9 novembre). Poiché anche a me, qualche volta, vien fatto di pensare che tra i romanzi letti negli ultimi anni non ce n’è uno che meriti di essere ricordato, devo farmi un esame di coscienza. Non sarà che, come tutti gli anziani, riesco soltanto a rimpiangere tempi che mi sembravano migliori perché ero più giovane io?
Mi pare che, a ben pensare, la qualità media della produzione letteraria di oggi non sia poi tanto peggio di quella di una volta: probabilmente di grandi romanzi, di quelli che diventeranno dei classici, se ne scrivono una decina per secolo. E i libri che hanno avuto ampia risonanza negli anni ’60  spesso, se riletti, oggi, risultano molto sopravvalutati. L’esercizio della critica è concentrato sul presente, e raramente effettua ricognizioni nel passato. Facile ironizzare sulla modesta qualità di alcuni dei libri più venduti e più premiati oggi. Credo invece varrebbe la pensa verificare cosa ci dicono, oggi, i premi letterari del passato, i best seller di una volta.
A scorrere i premiati dello Strega ci sono anche tanti titoli importanti: bisogna dire che alcuni sono diventati dei veri classici, come L’isola di Arturo , o Il gattopardo, e che ancora oggi si leggono i libri di Natalia Ginzburg e di Lalla Romano; ma chi si ricorda di La memoria, di Angioletti, Strega del ’49? E chi legge più L’occhio del gatto, di Bevilacqua, (’68), o Allegri, gioventù,di Cancogni (‘70)? E La spiaggia d’oro, di Brignetti, (’71), ha lasciato qualche traccia?
Non va tanto meglio nemmeno per il Campiello. Se di Silone si legge ancora Fontamara, chi ha più sentito parlare di L’avventura di una povero cristiano (Campiello ’68), o di Alessandra di Stefano Terra (’74)?
Non possiamo non riconoscere che il Nobel è andato, a lungo, a personaggi che meritavano effettivamente di essere, per così dire, santificati. Ma se i premiati degli ultimi anni non sono tutti di grande statura, non credo che autori come Mistral (Nobel del 1904) o Eucken (1908), Gjellerup (’17), Benavente (22) o Rolland (‘32) li legga più nessuno. Hanno avuto il loro momento di gloria, un temporaneo successo commerciale, ma oggi credo sarebbero indigesti anche ai cultori della materia. Sembrati imperdibili ai contemporanei, oggi sono spariti, ingoiati dal giudizio del tempo.
Ecco, forse una revisione critica potrebbe rimettere in discussione autori che vengono ancora oggi considerati importanti, ma che sarebbe difficile rileggere. Chi  rilegge Ferito a morte, non può non avere qualche dubbio: la sensazione è che sia stato importante perché innovativo, nel ’61; ma oggi a me pare si smarrisca in un colorismo invecchiato e poco attraente. Mi sembra da rivedere anche il giudizio su Bianciardi, che pure molti continuano a considerare importante. Ho provato a rileggere recentemente La vita agra, e non me la sentirei di raccomandarlo a un giovane di oggi: mi è parso lontano, sopravvalutato.
Forse ha ragione Patrizia Valduga, sull’ultimo numero di questa rivista,che non ne può più dei giallisti. Ma non è facile immaginare se altri libri più “seri” reggeranno l’urto del tempo. Invece Emilio De Marchi scriveva gialli che si studiano ancora. E gli anni non passano per Sciascia, che pure ha usato la forma gialla per alcuni dei più importanti romanzi del ‘900, che ci raccontano ancora oggi la società italiana con un’acutezza incomparabile. Si dirà che la sua lingua è splendida, che aveva capacità di sintesi insuperate. Ma resta che il giallo ha dato e sta dando alcuni scrittori interessanti: il tempo dirà se la loro qualità sopravvivrà al momento in cui il marketing li ha elevati a beniamini di pubblico e critica.
Se c’è una riflessione che questa disordinata ricognizione mi sembra suggerire, è che la critica dovrebbe essere più cauta nello scoprire romanzi indimenticabili: le recensioni spesso tradiscono amicizie e contiguità poco limpide. E soprattutto non può esserci un “più importante scrittore del momento” ogni mese. Sarebbe bello, ma è semplicemente falso, e temo possa indurre giudizi conformistici nei lettori. Nello stesso tempo i giudizi stratificati nel tempo si possono rivedere. Non credo ci si debba vergognare di scoprire che qualche autore molto riverito è in realtà sopravvalutato. Anche perché poi non possiamo lamentarci se gli studenti ai quali vengono consigliati “classici” invecchiati precocemente non si appassionano alla lettura. Rischiare di allontanare una generazione che ha fin troppi stimoli diversi dai libri non è un peccato veniale.
                                                       (DA "l'IMMAGINAZIONE, DICEMBRE 2018)

sabato 20 ottobre 2018


LA RETE E’ NATA PER EVITARE IL RIPETERSI DELLE
TRAGEDIE DEL ‘900 E NON ME N’ERO ACCORTO

Che il Web sia la più importante rivoluzione del nostro tempo è indiscutibile. Quali siano le ricadute che ha prodotto sulla nostra vita non è facile né descriverlo né capirlo fino infondo. E’ quindi utile il lavoro che Alessandro Baricco ha fatto con il suo The Game, uscito da Einaudi: descrive la lenta invasione del digitale, dipinge un dettagliato quadro dell’esistente e cerca di ragionare sugli effetti prodotti fin qui.
Passando dal primo gioco elettronico (i ”marzianini”) al Commodore 64 per arrivare alle macchine più moderne, Baricco individua alcuni temi significativi: la rivoluzione digitale ha significato innanzitutto il tramonto delle mediazioni, ha creato una sorta di oltremondo, un universo parallelo nel quale viviamo una vita diversa da quella che avevamo senza connessioni. La colonizzazione digitale ha esaltato la superficialità contro la profondità, la velocità contro la lentezza, il semplice contro il complesso, la post-esperienza (quella fatta nell’ambiente digitale) contro l’esperienza tradizionale.
A patto di non sentirsi respinti da un periodare prolisso e ammiccante (Voilà, una bella fava di niente, credo che andrò ad aprirmi una birra, sono egoriferito: e allora?, che palle, non fate quella faccia, fidatevi ecc.)  e dall’uso disinvolto di terminologia inglese, come se non avessimo termini italiani altrettanto utili, a cominciare dal titolo (tool, skill, device, storytelling ecc.), il libro è una ricognizione utile e competente.
Meritano una riflessione alcune intuizioni, per così dire, teoriche. Baricco parla della rivoluzione digitale con un entusiasmo che non lascia spazio a dubbi: è la dimensione nella quale ci sono, potenzialmente, più libertà, informazione, autonomia individuale  e conoscenza di quanta l’uomo non abbia mai avuto. E’ verissimo. Per Baricco questo ha prodotto la consapevolezza che “il parere di milioni di incompetenti è più affidabile di quello di un esperto”, con la conseguenza che “si è fatta largo la convinzione  che si possa fare a meno delle mediazioni, degli esperti, dei sacerdoti”. Ne è nato “un pianeta a trazione diretta, dove l’intenzione e l’intelligenza collettive diventano azione senza dover passare da autorità intermedie”. E questo ha visto nascere un’umanità aumentata. Interessante, anche se la nascita di intelligenze collettive presuppone una capacità di analisi e di riflessione che la rete – e in particolare la superficialità che Baricco giustamente ne considera un portato fondamentale - difficilmente sollecita. Certo invece che, al termine di questo processo, accade quel che lo stesso Baricco osserva: “L’uomo esperimenta una vita in cui è riuscito a fare a meno dei sacerdoti. (…) La trova bella. Ne trae  una rinvigorita concezione di sé”. Questo è un punto nevralgico, che però è difficile far passare per intelligenza collettiva e umanità aumentata. E’ il fenomeno per cui, eliminati i “sacerdoti”, con rinvigorita coscienza del sé, si può decidere che i vaccini non servono a niente, che le scie chimiche sono pericolose e che l’uomo non è mai andato sulla luna. Tutte idee in circolazione, non c’era bisogno della rete perché esistessero. E’ la loro diffusione che lascia sgomenti. Più che intelligenza, una tendenza al delirio collettivo, questo sì aumentato, con progressione geometrica, dalla rete.
Nell’ultima parte Baricco individua alcuni problemi: “Il Game si rivela esser un habitat difficile, faticoso e selettivo”, nota, e per questo la rete ha prodotto nuove élite, potenti come quelle di prima. Spesso amplifica zone di irrazionalismo perché la pancia prevale sul cervello. E “Non tutti sono uguali davanti al Game” perché la rete non ha ancora prodotto anticorpi che frenino lo strapotere dei grandi monopoli (Google, FB, You Tube ecc.) e di chi li sa sfruttare.
Analizzando il ruolo avuto dal connubio tra il Movimento 5 stelle e la digitalizzazione ammette che, nell’anomalia dell’alleanza con la Lega, è prevalso, oltre all’odio per le élite, l’inclinazione per un egoismo di massa. Pensando al fatto che la globalizzazione sembrava aver superato barriere e confini: “Può un processo di liberazione disorientare talmente gli umani da spingerli a tornare, volontariamente, nelle gabbie?”, si chiede. Eh già, può, certo che può.
Suggerisce, infine, che la rete abbia bisogno di iniezioni di umanesimo, per continuare a sentirsi umani (e non perdersi nella post-esperienza); e temo sia verissimo, ma chi gliele può fare, queste dolorose iniezioni?  
C’è un tema ricorrente, dall’inizio alla fine del libro, che personalmente mi lascia perplesso. Baricco sostiene che i “padri fondatori” del web erano gente che “stava evadendo da un secolo che era stato tra i più orribili della storia”, che l’orrore di Auschwitz deriva dai valori delle élite e che “c’era una casa in fiamme da abbandonare di corsa”; che volevano uscire da un passato rovinoso e che “si può comprendere il Game solo se si tiene conto del principale scopo per cui è nato: rendere impossibile la ripetizione di una tragedia come quella del ‘900”.
Io qui proprio non lo seguo. Qual è la casa in fiamme? La Comunità europea, nata 70 anni fa proprio perché non si ripetessero gli orrori della storia? E le élite responsabili chi erano, i fascisti e i nazisti? Non li definirei élite, ma capipopolo che facevano leva sui peggiori istinti popolari. Oppure erano le élite intellettuali che li hanno combattuti, dal carcere e dal confino?  E chi sono i “padri fondatori” del Game? Jobs, Zuckerberg, che della guerra mondiale e dei suoi orrori non hanno sentito che echi lontani? A me pare che il fatto che la rete abbia reso inutili le intermediazioni e “messo fuori gioco i sacerdoti“ non sia il presupposto del lavoro dei “padri”, ma la conseguenza. E, soprattutto, siamo certi che i “padri” avessero un progetto ideale? Lo stesso Baricco riconosce che erano imprenditori che volevano innanzitutto fare i soldi.
Ho la sensazione che questa idea che la rete, meravigliosa occasione mancata di democrazia della conoscenza, sia nata per evitare gli orrori del ‘900, serva a darle una vernice nobile, immaginando che sia figlia di grandi ideali invece che di semplice utilizzazione di tecnologie usate a fini speculativi. E che si debba dare credito a quella che Baricco chiama la “seconda resistenza”, la riflessione di chi individua nella rete uno strumento che, invece di allargare la conoscenza, l’ha progressivamente limitata a élite ancora più chiuse, ma senza potere. E che quello di cui dovrebbe liberarci la tecnologia digitale è invece proprio quello che sta producendo: un ritorno al nazionalismo, alla chiusura dei confini, ai muri, all’odio per il diverso, al fanatismo collettivo e a forme di intolleranza per chi non la pensa come la maggioranza. Quello che, in una parola, era la sostanza ideale dei fascismi.
Questo a me pare sia il terribile pericolo che la rivoluzione digitale rischia di produrre. Questo l’elemento principale attorno al quale credo si debba riflettere e ci si debba confrontare. Esserne consci sarebbe un elemento di reale presa di coscienza delle contraddizioni del presente; e dovrebbe  essere alla base di una profonda – non superficiale! - revisione di quello che ci si è illusi essere uno strumento di libertà e sta diventando uno strumento di ottusità collettiva.                                           

martedì 17 luglio 2018


ISOLE E FORMICAI
La letteratura è nata su un’isola. Da Itaca parte Ulisse per Troia, e a Itaca ritorna, alla conclusione del nostos, fuggendo da Ogigia, l’ultima isola che lo ha avuto prigioniero. L’Iliade, e soprattutto l’Odissea, sono popolate di isole. Di isole si nutre la narrazione antica, di isole è popolato il dramma classico come il romanzo, di isole ancora oggi parla con costanza la letteratura. Se la dimensione insulare è così connaturata a ogni forma di narrazione, quasi necessaria per raccontare vicende, è perché il modello di terra circondata dal mare, chiusa in una società con caratteristiche di autonomia, scelte o imposte poco importa, rappresenta una sorta di luogo geometrico delle interazioni umane, delle contraddizioni della vita associata, degli archetipi del comportamento degli individui.
Solo su un’isola può accadere che si concentrino caratteristiche altrimenti uniche: come quelle dei ciclopi, violenti e stolidi, come i Lestrigoni. Su un’isola può vivere Eolo, con il suo otre contenente tutti i venti . Ma soprattutto solo in una comunità chiusa si può rappresentare nella sua ipotetica realizzazione un’utopia. La prima la troviamo appunto nell’Odissea: l’isola dei Feaci racchiude una società pacifica, che rinnega la violenza e aspira alla kalos k’agathìa,  alla bellezza e alla bontà. E sono isole quelle che, nel tempo, ospiteranno comunità utopistiche come l’Utopia di Tommaso Moro, la Città del sole di Campanella. la Nuova Atlantide di Bacone. Lì, in una’enclave non contaminata da società bellicose e intolleranti, può nascere e prosperare l’utopia, costruendo non solo un modello organizzativo perfetto, ma anche l’uomo nuovo che lo vive e ne rappresenta il prodotto ultimo. Un po’ come l’ideale bolscevico del socialismo in un solo paese, le isole delle utopie letterarie confermano, con la loro stessa insularità, di essere un modello irrealizzabile se non in un luogo separato dai conflitti del mondo.
In fondo, ancora oggi è solo su un’isola che possiamo trovare una società legata a valori comunitari, fortemente coesa e orgogliosa della propria autonomia sociale e intellettuale, pronta a difenderla con l’orgoglio di conosce la propria originalità. Lì, tra paesaggi che  non escludono mai l’immensità marina, vita e sogno si confondono, ed è come se il suono incessante del mare che si frange sulle sponde insulari producesse un incantamento perpetuo.
Ma l’isola è anche il luogo chiuso, dove esplodono le contraddizioni che su un continente ampio e aperto si possono diluire in spazi sconfinati. Ed è su un isola che Prospero e Calibano vivono il conflitto della Tempesta scespiriana; è sull’Isola misteriosa che i naufraghi di Verne ritroveranno il capitano Nemo; è l’isola delle Api industriose quella dove Pinocchio ritrova la Fata e mette (o meglio, dovrebbe mettere) la testa a posto; è un’isola quella dove i ragazzi isolati del Signore delle mosche costruiscono una società di infantile violenza e intolleranza; è un’isola quella dove Napoleone sogna la rivalsa del 100 giorni; è un’isola quella dove viene scritto il manifesto di Ventotene; isola è Alcatraz, luogo di sofferenza e di evasioni;  isola è quella del castello di If, da dove parte il progetto di rivalsa e vendetta del Conte di Montecristo, ed è un’isola quella che custodisce il tesoro che ne permette la realizzazione. L’Alcina ariostesca vive in un’isola al di là delle colonne d’Ercole, geograficamente vicina all’isola del Purgatorio dantesco; isole sono quelle dove si organizza il dinosaurico Jurassic Park e dove si conclude la ricerca della latitudine dell’Isola del giorno prima di Umberto Eco; isola è quella dove i 10 piccoli indiani muoiono in una tipica vendetta a chiave di Agata Christie.

Se le isole sono un luogo privilegiato di ogni narrazione, questo è dovuto al fatto che rappresentano una contraddizione formidabile. Difese dal mare, sono una sorta di fortezza naturale, che dà sicurezza e autonomia a chi ci nasce o ci si rifugia, perché difficili da conquistare e da dominare. Ma insieme sono i luoghi dell’endogamia, dell’isolamento culturale e quindi del rischio di arretratezza; sono terre che non possono chiedere solidarietà ai territori vicini, perché vicini non sono. L’isola, grande o piccola non conta, è un continente a sé che sembra esprimere in modo accentuato tutti i nodi dell’organizzazione sociale. L’isola è insieme un meraviglioso mondo, che può essere più puro e più genuino delle terre attraversate da migrazioni e da invasioni, ma insieme una sorta di laboratorio sociale dove le contraddizioni si acuiscono e i conflitti si radicano.
Accade perché per descrivere un mondo particolare, in cui si verificano fatti che meritano di diventare racconto, si aprono prospettive originali e rotture degli schemi che sollecitano la descrizione romanzesca, bisogna che ci sia una specie di laboratorio, come quelli che usano i mirmecologi per studiare la vita delle formiche. Insomma, la letteratura ha usato le isole come formicai, le ha trasformate in strumenti di indagine, ci ha messo dentro gli esseri umani e li ha costretti a vivere in condizioni a volte estreme, spesso violente, altre ireniche, sempre diverse da quella che si potrebbero trovare nella sterminata distesa di un continente. Nelle isole ha creato utopie, come quella degli Houyhnhnms, i cavalli sapienti di Gulliver, dalle mente così limpida da non conoscere nemmeno le parole della falsità e della negazione; e distopie, come la società di infantile violenza e intolleranza del Signore delle mosche; dalle isole ha fatto nascere miti, come quello del piccolo regno di Ulisse, e originali percorsi formativi, come quello dell'Isola di Arturo. Sulle isole ha indagato su cosa possono diventare gli uomini in condizioni altrimenti inimmaginabili, lì ha fatto sopravvivere per anni naufraghi isolati e sperduti, lì ha fatto crescere creature fantastiche e mostruose, lì ha sperimentato ogni possibile esasperazione dei rapporti sociali.
E lì ha prosperato.

Anticipazione dell’intervento per il festival
“Passavamo sulla terra leggeri”
Siliqua, 20/7/18

domenica 27 maggio 2018


Le piccole lapidi degli anni facili:
un libro di Giovanni Pacchiano

Nella Linea d’ombra, Conrad parla del periodo in cui ci si accorge di dover “lasciare alle spalle la regione della prima gioventù”, e descrive un drammatico passaggio al tempo della responsabilità e della durezza dell’età matura. Gli anni facili, di Giovanni Pacchiano, Bompiani, sono invece proprio quelli della prima gioventù, vissuti prima di affacciarsi alla linea d’ombra, che stanno tra l’adolescenza e la maturità e che però, anche se non sono ancora pervasi dai problemi, dai conflitti e delle ansie della vita lavorativa, non sono solo il periodo incantato di cui parla Conrad. Anzi.
I protagonisti del romanzo di Pacchiano sono gli studenti universitari milanesi degli anni Sessanta, vivono gli anni relativamente tranquilli che precedono il Sessantotto, hanno le prime esperienze sessuali, i conflitti tra ragione e sentimento, scoprono le contraddizioni  delle differenze di classe, incontrano i primi drammi, si scontrano con i genitori e fanno per la prima volta i conti con personaggi violenti e infidi. Sullo sfondo, un’università che non è ancora animata dalla contestazione, ma in qualche modo ne ha il presentimento; la guerra fredda e la crisi di Cuba;  la minaccia della guerra nucleare; le prime minigonne; il jazz e il rock; e l’aprirsi di un nuovo orizzonte culturale, con le letture che accompagnano gli anni dello studio, e il confronto con professori ed esami.  
Se il tessuto della narrazione è costituito soprattutto dell’intrecciarsi di piccole e grandi faccende sentimentali, in realtà tutto porta alla scoperta delle tensioni ultime della vita alla quale si affacciano i personaggi. Una relazione con una ragazza che si desidera ma non si ama, il complicato sentimento per una donna matura, la delusione nei rapporti di amicizia sono momenti di un affresco che comprende la musica, i suoni, i film, i libri di un’epoca di passaggio. Qui l’accumularsi degli elementi di formazione di quel periodo è illuminante: Feliditade, Orfeo negro, Henry James, Rimbaud, Accattone, Giuseppe Berto, Venere in visone, Frankie Lane, Alba de Cespedes. E’ un patrimonio culturale  che mescola alto e basso, e segna il maturare della prima generazione che, in Italia, non ha conosciuto né il fascismo né la guerra. Un’Italia che si affaccia al benessere nella quale, magari con qualche sacrificio, si studia, si viaggia e si pratica lo sport, come per le generazioni precedenti hanno potuto fare solo i privilegiati.
Come deve accadere, la nuova libertà della generazione del dopoguerra comporta nuove responsabilità, malinconie e delusioni. Pacchiano riesce a trovare la chiave per descrivere la tipica propensione all’autoanalisi e alle riflessioni che quel’età  porta a fare sulle ipocrisie che comportano i rapporti umani. La scoperta che “ognuno di noi ha un segreto da nascondere. Invisibile nella vita quotidiana anche per quelli con i quali viviamo”. Colpiscono le descrizioni della natura, in montagna, l’idea che i laghetti nascosti siano metafore dei misteri della vita, le mestizia dei giorni di pioggia incessante, che in città ci lascerebbero indifferenti ma lassù diventano una situazione asfittica di chiusura e di noia, la libertà del camminare e del sentire la vitalità del proprio corpo. E insieme capire che lo sconfinare nel romanticismo è un’illusione, “anche se aiuta a esistere”. 
E’ vero, ha ragione Conrad, c’è stato, per chiunque li abbia vissuti, quegli anni, una sorta di febbre, di bisogno di consumare tutto quello che ci trovavamo davanti, la sensazione di essere in “un giardino incantato dove anche le ombre splendono di promesse”. Ma c’è stato anche l’apparire di un limite a tutto questo, la consapevolezza della dimensione effimera di quelle estati senza impegni, finiti gli esami, che sembravano eterne, la città vuota. E quell’immergersi in discorsi senza fine con amici e ragazze che immaginavamo fossero rapporti imprescindibili e che poi si sono smarriti nell’ordinata vita adulta. Non è una stagione tutta vivida vitalità, corporea saturazione dei desideri. E’ un tempo che fa presagire la linea d’ombra, e comporta malinconie e piccole disperazioni, lacerazioni e svelamenti. E’ vero che sono anni facili,  fatti di “giorni veloci come le nuvole in cielo nella giornate di grande vento”. Pacchiano le descrive con la consapevolezza del fatto che sono quelli che ci hanno formato, che hanno lasciato un segno indelebile, e insieme che non ci hanno lasciato che un ricordo struggente, del quale, forse, alle volte, preferiremmo fare a meno.
A ripensarli, ci danno la stessa sensazione che proviamo ritrovando le fotografia delle classi della scuola, dice Giacomo, il protagonista degli Anni facili: un elenco di nomi – l’appello! -dei quali non sappiamo più niente. “Piccole lapidi del passato”. Cimeli del momento in cui abbiamo scoperto che la vita, lei, non è facile per niente.

                                                                                          Da "L'Immaginazione, giugno 2018

martedì 3 aprile 2018


TRA I MANICOMIETTI E IL NEOSCIAMANESIMO TASTIERISTA

Trovo sempre irritante che si neghi l’oggettivo progredire dell’uomo nella storia. E’ vero che non si tratta di un cammino uniforme, che l’affermarsi dei diritti e dei valori della convivenza conosce anche lunghi momenti di regresso. Ma abbiamo considerato naturale, per millenni, l’esistenza della schiavitù, e oggi (con qualche falla) non la tolleriamo più. Abbiamo diligentemente bruciato streghe ed eretici fino a non molto tempo fa, ma non lo facciamo più. E pian piano abbiamo chiuso i manicomi, esteso l’assistenza sanitaria non solo a chi se la poteva permettere e limitato i fattori di privilegio ereditari. Se c’è un settore nel quale, invece, stenta ad affermarsi una sensibilità per un problema che dovrebbe essere considerato di interesse collettivo, è quello dell’assistenza a chi soffre, a vario titolo, di disabilità.
Gianluca Nicoletti, per la sua esperienza di padre di un figlio autistico, si occupa da anni di questo tema. Il suo ultimo libro, Io, figlio di mio figlio, Mondadori, ripropone il problema della loro assistenza quotidiana e della difficoltà che incontra l’accettazione delle loro problematiche. Affrontare l’autismo è difficile anche perché è una sindrome che si presenta con uno spettro molto ampio, che va da casi ad “alto funzionamento” (la definizione è inquietante, ancorché scientifica) a quelli a più “basso funzionamento”, che necessitano di assistenza continua. Questi ragazzi nascono già orfani, dice Nicoletti, e paradossalmente hanno solo i genitori su cui contare. Il  giustificato timore (ma è già successo) è che, venuta meno la capacità dei genitori di occuparsene, in barba alla 180, vengano ricoverati in una sorta di manicomietto, in mano ad operatori non competenti e alle volte anche violenti, che non avranno altri strumenti che una sedazione continua per evitarne le crisi e le reazioni incontrollate.    
La speranza è che “si possa costruire quel modello di società dove la neurodiversità possa sviluppare i propri talenti attraverso i suoi rappresentanti con più alto funzionamento”, perché in realtà anche gli autistici che non si esprimono disinvoltamente e hanno una maturità apparentemente infantile, hanno sentimenti, sensibilità e intuitività alle volte molto elevate. Anzi, “poiché l’arte è l’unico territorio in cui essere folli non è considerato un limite”, possiamo considerare gli autistici  persone che vivono in un mondo parallelo, dove dovrebbero esser liberi di esercitare, come artisti, le loro caratteristiche di diversità. “Difendiamo il fatto che ai nostri figli sia riconosciuto il diritto di essere come sono”, dice Nicoletti.
Un capitolo a parte merita il problema dei genitori che non accettano che i loro figli siano nati con i geni dell’autismo, e ne attribuiscono la responsabilità alle vaccinazioni. L’insensato movimento “no vax”,  una volta marginale, ha assunto una portata una volta impensabile con il veicolo della rete. Nicoletti, che pure è stato uno dei primi a considerare la rete una straordinaria occasione per la libera espressione del pensiero, parla oggi di “neosciamanesimo tastierista” e riconosce che la sfiducia per le competenze e le istituzioni ha origine da “flussi emotivi e da parole chiave che diventano acceleratori d’indignazione attraverso i social network”.
Vero elemento di novità, nel libro, è che Nicoletti, proprio perché convinto che i vaccini non c’entrino nulla e che l’autismo sia in parte una caratteristica ereditaria, si è voluto sottoporre a un esame clinico dal quale è emerso essere autistico anche lui, un tipico caso di sindrome di Asperger: ad “alto funzionamento”, con le caratteristiche classiche di questa sintomatologia, che pure permette di convivere con il resto del mondo. Devo dire che, anche se può sembrare un tentativo di autoassoluzione per le proprie idiosincrasie, la descrizione delle caratteristiche qui descritte mi ha subito fatto pensare che anch’io dovrei far parte del gruppo in esame. Ma quel che conta è che il libro, con questa verità sottotraccia, diventa un’autobiografia alla ricerca della propria diversità, poiché è giusto che ognuno riconosca la propria, se ce l’ha, e ne ricavi un manifesto per il diritto a un pensiero “altro” e a considerare gabbie insopportabili le strutture sociali che non lo tollerano.
Tornando all’idea della freccia del progresso, concludiamo con Nicoletti che è incredibile come, in una società che prova ripugnanza per l‘addestramento degli animali da circo e si batte per i diritti degli animali domestici, non ci si ribelli al maltrattamento degli esseri umani più indifesi. Che le famiglie continuino a considerare un figlio autistico una vergogna da nascondere, e che si trincerino dietro ipotesi fantasiose pur di non ammettere che con la nostra diversità, e la disabilità, dobbiamo conviverci e non vergognarcene.


                                                                                        Da "L'Immaginazione", Aprile 2018

mercoledì 7 febbraio 2018

COME FAR SCAPPARE 
I BRAVI DIRETTORI DI MUSEI 
E VIVERE  FELICI

Ma possibile che, con tutto quello che ci succede intorno, con i problemi che affliggono il futuro del paese di fronte a una tornata elettorale che lascerà il parlamento nell’incertezza, ci si debba occupare di Tomaso Montanari? Ebbene sì, ci tocca anche questa. Cos’è successo? Che il Consiglio di Stato, supremo organo di giustizia amministrativa, ha messo in mora le nomine di direttori di museo che non hanno la cittadinanza italiana. Non possono difendere istituzioni di rilevante interesse nazionale, dicono i magistrati; e si prendono un po’ di tempo per decidere, anche perché le opinioni, all’interno dello stesso Consiglio, sono divergenti. E Montanari, come  è logico, ha gioito. In un ispirato articolo su Repubblica ci spiega che la legge è scritta male, che Franceschini non sa fare il suo mestiere, o ha collaboratori inadeguati. E che la riforma aveva nominato direttori senza risorse, non provenienti da grandi musei ma anzi, ”figure di secondo o più spesso di terzo piano”.
Poco sotto, come se questo dimostrasse l’assunto, ci informava che il direttore degli Uffizi ha annunciato, a metà mandato, che andrà a dirigere il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Segno, a suo parere, che la riforma non funziona.
Ora qui Montanari deve mettersi d’accordo con se stesso. Se il direttore degli Uffizi, già dirigente di importanti musei in Germania e negli Usa, ha deciso di andarsene a dirigere a Vienna uno dei più importanti musei d’Europa, vuol dire che proprio di secondo piano non era. Né lui, né altri colleghi stranieri chiamati in importanti musei, che tra l’altro vantano un notevole aumento di visitatori e di introiti. Vuol dire, forse, che ha capito che il Consiglio di Stato potrebbe mandar via anche lui, e ha cercato una sistemazione prima che accada.
Ma Montanari dovrebbe anche spiegare perché, se chi non è cittadino italiano non può tutelare le istituzioni nazionali in Italia, questo può succedere altrove. Infatti l’ormai ex direttore degli Uffizi ha diretto l’importante museo di Baltimora e ora va a Vienna, pur essendo cittadino tedesco. Cosa accade? All’estero sono così stupidi da lasciare che gli stranieri gestiscano le loro istituzioni e solo noi italiani siamo così accorti da evitare che pericolosi stranieri si impadroniscano dei nostri musei? Non è, per caso, che la nazionalità non c’entra niente e che quello che vale, in questo caso, è la competenza e la capacità manageriale? A Montanari non va giù che, poiché la Costituzione indica che chi ricopre cariche pubbliche debba “adempiere con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”, questo compito venga affidato a, chessò, un tedesco. Per non parlare della parola “manageriale”, che a Montanari fa venire la pelle d’oca, perché pensa che i musei siano dei centri di ricerca scientifica e che il numero di visitatori non conti nulla. Buffa opinione, per chi si dichiara di sinistra: pensare che i musei siano fatti per un’élite di studiosi e non per le masse. Che stiano a casa, a guardare la tv, quegli ignoranti.
Ecco, la situazione del paese non è allegra, ma questo caso non è estraneo al declino di autorevolezza e competitività che affligge l’Italia. Se non abbiamo capito che siamo in Europa, e non in un paese isolato, che può accadere che un tedesco abbia più disciplina, onore, e magari anche doti intellettuali e manageriali di qualche funzionario italiano, come speriamo di affrontare le sfide della globalizzazione? E se il nostro provincialismo ci porta a pensare che è sempre meglio difendere i burocrati nostrani e non metterli in competizione con le intelligenze che popolano il continente, quando riusciremo a superare l’inerzia e l’inefficienza cronica della nostra pubblica amministrazione? Infine, se a ogni innovazione quelli che si qualificano “progressisti” reagiscono con il rifiuto di ogni novità e la difesa a oltranza dello status quo, che cambiamento potremo mai aspettarci, e da chi? Dai conservatori?

Montanari è un ottimo storico dell’arte. Ma se questa dovesse essere la classe dirigente che aspetta di prendere il posto di chi ha – forse mediocremente, ma dignitosamente - gestito il paese negli ultimi anni, siamo fritti. Dei talebani della cultura, dei fondamentalisti del sindacalismo statalista, dei nazionalisti di estrema sinistra non abbiamo proprio bisogno. Che facciano il loro mestiere, ma evitino di bloccare ogni tentativo di modernizzazione dello stato, per piacere. Ne abbiamo avuti già troppi, di personaggi bizzarri, in posti chiave del paese. Ora vorremmo persone sensate.  

mercoledì 31 gennaio 2018

ASCOLTARE E' UN MESTIERE DIFFICILE

Nel momento in cui quotidiani e televisione pagano un pesante tributo allo sviluppo della comunicazione in rete, qual è lo stato di salute della radio? Se lo chiede Giorgio Zanchini nel suo nuovo libro, La radio nella rete, Donzelli, e la risposta è: la radio se la cava meglio degli altri. Anzi: “in una rete dove gli scambi e i cosiddetti ‘prestiti mediali’ sono continui, può persino prosperare”. Questo, soprattutto perché si è adattata tanto alla tecnica che alla tempistica dei nuovi media. Invece di esserne fagocitata, li ha integrati, ne ha sfruttato le potenzialità a proprio vantaggio, e ha usato l’allargamento della platea dei prosumers, i produttori-consumatori, per essere ancora più rapida e “leggera” nel rapporto con l’attualità.
Per capire come si è verificata la sopravvivenza del più vecchio dei media senza fili, bisogna considerare più elementi. Zanchini da un lato ripercorre le osservazioni dei grandi che hanno riflettuto sulle caratteristiche del mezzo, da Arnheim a Brecht, da McLuhan a Eco, e dall’altro ricorda il modo in cui, nel tempo, la radio si è evoluta, e ne trae una serie di conclusioni semplici ma illuminanti.
Contrariamente ai mezzi “pesanti”, giornali e tv, la radio è stata la prima ad aprirsi al contributo del pubblico, anche in diretta, offrendo strumenti di condivisione – forse illusori, dice Zanchini, ma comunque coinvolgenti – che sono gli stessi dei mezzi digitali. Se la rete è essenzialmente un mezzo di comunicazione senza mediatori, però, la radio mantiene forme di intermediazione, e quindi di autorevolezza, anche se è sempre più aperta al contributo degli ascoltatori, e ha quindi un profilo più orizzontale degli altri mezzi tradizionali.
Tecnicamente, la radio è il più duttile dei media, perché può essere ascoltata con strumenti diversi e in tempi e luoghi diversi. Ogni programma può essere ascoltato in diretta, in streaming, registrato, recuperato in podcast  e selezionato senza limiti nell’offerta di un numero enorme di stazioni. “La trasmissione oltre ad avere un durante (…) ha ormai un prima e un dopo”. Insomma, per certi versi si tratta del mezzo più aperto a ogni forma di fruizione, nel tempo e nello spazio.
Se la radio ha mantenuto tanta vitalità, è perché è un mezzo di parola, perché si basa su un elemento fondamentale dei rapporti umani: la conversazione. Un elemento che richiama ideali illuministi, anche se non sempre conduttori e ascoltatori sono all’altezza della sfida di portare profondità e riflessione sui grandi temi del presente.
Il libro è ricco di informazioni sul panorama delle emittenti in Italia e all’estero, sui modelli di programmazione, di flusso o di palinsesto, sulle caratteristiche del pubblico e sui modelli di conduzione. Particolarmente interessanti alcuni “decaloghi”, da quello di Gadda a quello di Sinibaldi, e  le osservazioni sulla lingua e sulla sintassi della radio. Oltre ad essere una miniera di informazioni, però, il libro è  strumento di riflessione, non soltanto sullo specifico radiofonico ma anche, in generale,  sui processi comunicativi nell’era digitale.
Una domanda centrale è quella su che spazio resti per l’ascolto attento, “nell’era della disattenzione, della connessione perenne”. E se ci siano dei rischi, in questo processo di ibridazione che ha trasformato la radio nel più multimediale dei mezzi di comunicazione. “Ho l’impressione che possa esserci una perdita in termini di profondità e di chiarezza”, dice Zanchini; che la soglia dell’attenzione rischi di calare, che ci sia un’inevitabile perdita di concentrazione. Contro i cantori del multitasking, bisogna ammettere che “il cervello fatica a gestire in modo logico ed efficiente tutte le attività che gli chiediamo in simultanea”.  Qui il rischio maggiore: “Alcune conseguenze della rivoluzione digitale, in particolare frammentazione, disattenzione, connessione perenne, possono impoverire uno degli spazi in cui la comunità riflette assieme”. Ecco, questo mi pare il vero nodo del rapporto tra radio e rete, e forse della trasmissione di informazione e conoscenza nel tempo della rivoluzione digitale. Il continuo flusso di informazioni non è pericoloso perché contiene troppa sostanza. E’ pericoloso che noi si perda la capacità di discernere non – come vuole la moda – tra notizie vere e fake news, ma tra quello che ci serve e quello che è superfluo. In questa prospettiva, la radio non sfugge al destino di tutti i mezzi nell’entropia informativa della contemporaneità. Se non avremo gli strumenti per selezionare ed analizzare i contenuti del flusso informativo, saremo connessi, ma non saremo in grado di connettere tra loro gli elementi che servono ad avere coscienza critica del presente; avremo sempre più informazioni, ma meno conoscenze, e meno capacità di interpretare la complessa realtà che ci circonda.

Da "L'immaginazione", febbraio 2018



AVERE BRAVI MAESTRI

Si è un po’ sopita la polemica suscitata da un provvedimento che potrebbe impedire a chi ha soltanto il titolo di maturità magistrale di insegnare nelle scuole elementari. Mi par di capire che gli interventi che si sono succeduti, sulla stampa e sugli altri media, hanno visto prevalere l’opinione di chi ritiene che, per insegnare ai bambini, sia necessaria una laurea. Le motivazioni sono diverse, ma emerge soprattutto l’idea che oggi l’insegnamento sia un impegno molto più complesso del passato, che siano necessari princìpi pedagogici scientifici, che solo una preparazione universitaria può dare.
Devo dire che per certi versi sono d’accordo: più si studia, meglio è. E questo non vale soltanto per i maestri. Sono convinto che anche per chi si sente portato a mestieri che non prevedono un impegno intellettuale, un corso di studi universitario può esser utile. Maturare una cultura approfondita fa bene a tutti, e fa far meglio ogni mestiere, da quello dell’idraulico a quello dell’insegnante. La preparazione, poi, per chi deve occuparsi della formazione dei cittadini di domani, non può essere né affrettata né superficiale. E’ vero.
I dubbi, invece, mi vengono dal fatto che quelli ai quali dovrebbe essere interdetto l’accesso ai ruoli  siano maestri che già insegnano, spesso anche da molto tempo. Credo che, per l’insegnamento elementare, la pratica sia fondamentale, e una vocazione sia determinante. In mancanza dell’una e dell’altra, secondo me, un titolo universitario non basta, a fare un buon insegnante.
Ma il motivo per cui sono portato a pensare che il provvedimento sia inopportuno è che la storia ci ha insegnato che si può essere dei grandi educatori senza aver avuto titoli di studio elevati. Non penso soltanto al maestro Perboni, o alla maestrina dalla penna rossa del libro Cuore; penso ad alcuni grandi, che magari poi hanno conquistato titoli importanti, ma che dall’istituto magistrale venivano, e hanno lasciato tracce significative nelle scuole dove hanno insegnato come nella cultura nazionale e internazionale. Forse il nostro legislatore non lo sa, ma due grandi poeti come Zanzotto e Bandini venivano dell’istituto magistrale, e hanno insegnato alle elementari. E uno dei più grandi scrittori del Novecento, Leonardo Sciascia, era un maestro elementare. Chi non vorrebbe aver avuto un tale maestro, nella scuola, indipendentemente dal titolo di studio?
Sarebbe opportuno riflettere su quanto, nella formazione della scuola primaria, dipende dalla formazione avuta e quanto dalle capacità dei singoli. L’intelligenza, la sensibilità, l’intuizione necessari a lavorare con i bambini, non sono qualità equamente distribuite tra gli esser umani. C’è chi ne ha molte, chi niente. Gli studi fatti c’entrano poco. Ai bambini non bisogna insegnare materie astruse, nozioni molto complesse, tecniche raffinate. Bisogna insegnare ad apprendere e ad avere a che fare con i libri, dove c’è tutto quello che serve. Un bravo maestro è uno che sa far incontrare i bambini con la cultura. Chi, indipendentemente dagli studi fatti, non lo sa fare, un bravo maestro non lo sarà mai.